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GERGO
(a)
Abbettà, 'bbettà: 1.
gonfiare, dall'antica radice bot,
significante 'gonfiezza', da cui il tardo latino
battus e anche altre parole
dialettali, quali bòttamaré, bòtte, peccéne,
sbettà (v. alle singole voci); la parola
richiama l'italiano bòtte (=busse), oltre
che, ad esempio, col significato di 'gonfiare di
cibo'; bbottatu, gonfiato di cibo, a
Massignano e Montefiore; 2. contagiare (jà 'bbettate
le ròse, gli ha attaccato il morbillo).
Abbeterà,
avvoltolare; anche abbeterà da bot?
abbeterenne si arriva alla rotondità.
Zure, zure, zure / che me dà' se t'abbetóre!,
è la filastrocca che le mamme cantavano,
giocherellando col loro piccolo mentre lo
fasciavano. La rima fa presumere che all'inizio
era abbeture e non abbetóre.
Allora la u, presumendosi la nenia nota nel
medioevo, si sarebbe trasformata in ó in epoca
più recente; a meno che non fosse inizialmente
zóre, zóre, zóre, diventata poi zure
per ipercorrettismo.
Àcce, lino;
àccia-àcce, tutto lino, in contrapposizione
ad àcce e cuttò, lino e cotone;
dal lat. acia, filo, refe.
Accéche, 'ccéche,
piano, lentamente; così ad Acquaviva e
Monteprandone; accìche a Cupramarittima e
Montefiore; la voce manca in Ascoli ed in paesi
dell'Ascolano. Da a céche (lat. cicum),
a poco? Cfr. Jè céca brótte!, è poco
brutta!
Accemendà, 'ccemendà, provocare.
Accerrà, acciurrà, 'ccerrà, 'cciurrà,
acciuffare, prendere per i capelli; con
tutta evidenza dalla stessa parola latina da cui
ciórre (v.). Accíurrà anche a Montefiore.
Accèsse, ascesso.
Accevé, 'ccevé: lett.
accibare, accudire, ma nel senso di 'dar da
mangiare ad un piccolo'; dal lat. cibus,
mediante rifacimento su accipere?
Accòrie, accorgere. Accòriese,
accorgersi; ad Ascoli addasse.
Accufecchià, 'ccufecchià,
coprire bene. Nel Dizionario del dialetti
piceni fra Tronto e Aso, di F. Egidi, troviamo
che la voce significherebbe 'appiattarsi'; e
così anche a Montefiore e Montegallo; ugualmente
ccheficchià ad Offida e Monsampolo.
Nell'abruzzese arcaico "cuvìcchjé,
accanto a cufécchjé, cufìcchjé, cuférchjé,
cufìrchjé 'tana, buca nella roccia' scherz.
'camera, casa' G DAM I p. 641, che continua il
lat. cubiculum 'camera da letto' già in
Plauto e forse in parte con adattamento osco
(cuficlom) A. 'Abruzzo' IX, 1971 p. 44. Cfr.
fenicio chaphaph, coprire; v. cafòlle.
Accuse, che di solito
viene pronunciata 'ccuse, per aferesi,
significa 'niente' e propriamente 'nessuna cosa';
è formata dalla parola cuse, cosa, più il
prefisso a con l'identica funzione che in
greco ha l'alfa privativa.
Acquatécce, sorta di
vinello; la parola, che rimane pressoché
inalterata nella zona dialettale sambenedettese
estranea all'influenza ascolana (acquatécce
ad Acquaviva e Monteprandone; acquaticce a
Cupramarittima, acquaticcia a
Campofilone; acquaticciu a Montefiore),
ad Ascoli diventa acquarielli ed a
Montegallo acquarille.
Addemètte, 'ddemètte,
sottomettere.
Affienghé, 'ffinghé,
ammuffire, da fiònghe (v.); così pure ad
Acquaviva e Monteprandone; affenghì, ad
Ascoli.
Aje (jé all’a.). Al
tempo delle parànze e delle
langètte, quando cioè la pesca non era
motorizzata, le barche non tornavano a riva per
sbarcare il pescato, nella buona stagione, e ciò
per approfittare del bel tempo e mettere qualche
soldo da parte per la dura invernata, quando i
fortunali avrebbero impedito alle barche di
prendere il mare. Si trattenevano in pesca per
settimane e settimane, talvolta per mesi,
avvicinandosi un po' alla costa, sempre pescando
(terènne, come si dice in gergo, cioè
tirando la rete), nel pomeriggio, per rendere
visibile dalla spiaggia la vela quadrangolare e
i segni che la distinguevano. Dalla riva allora
partivano, per andare loro incontro, delle
langettócce che, arrivate sotto bordo,
caricavano il pesce e lo portavano a terra. Le
parànze e le langètte riprendevano
poi il largo. Jé all'aje è
l'azione di andare incontro alle parànze
o langètte, caricare il pesce e portarlo
a terra.
Ajéne, gallina.
Albula, nome di lu
fusse per antonomasia di San Benedetto del
Tronto. La radice alba dell'idronimo è
preindoeuropea e ligure.
Àlle, gallo.
Alleà, legare, usato
solo quando, mangiata della frutta acerba, si
debba dire che 'lega i denti', allèe i dinde;
alleà dal lat. allígare, legare.
Allecchenejé,
allettare, allecchenejéte, allettato, fr.
alléché, proprio col significato che La
Fontaine dà alla parola nella favola Le
corbeau et le renard; probabilmente esito
franco.
Alleccià, far luce;
dal lat. allucére, far lume, risplendere.
Allendà, Ilendà,
smettere; e così pure a Montefiore; abbendà
in Abruzzo.
Allescià, scivolare.
Allezzeré, 'llezzeré,
digerire. Cfr. 'annacquare', addacquà,
con alternanza I/n (ed
anche g/z ?).
Allùche, composta da
alfa privativa e luche (luogo), che vuol
dire 'in nessun luogo' (cfr. lat. in ullo
loco, di cui potrebbe anche essere
contrazione). Ad Offida Iluoche; a
Monsampolo, Cossignano alluoche; a Cupra,
Montefiore e Carassai alluche. Ad Ascoli
alluoche e così ad Appignano; alluche
anche a Montegallo e Force.
Alòrze: la parola è
di difficoltosa definizione. Si dice che va
alòrze quella imbarcazione che, raccogliendo
quanto più vento possibile con la vela, scivola
velocemente sulle onde tutta inclinata da una
parte, stringendo al massimo la bordata. Va
alòrze!, ordina lu parò al timoniere
per dirgli 'costringi il vento nella vela e
mostragli la prua!'. Per analogia si dice anche,
scherzosamente, che va alòrze quella
persona che va a passo svelto e inclinata da una
parte, con una spalla più sollevata dell'altra.
Ammenéte, ‘mmenéte,
arenato; dal lat.in venire, venire
presso.
Àmmere, granchio,
lat. Cammarus.
Ammestà, 'mmestà, pestare (di botte) cfr.
dial. mmòste (it. ‘mosto’).
Andremùje, intestini.
Cfr. ingl, entrails, vecchio francese
entraille, spagn. entranas.
Anghió, alice (engraulis
encrasicholus); e così anche ad Acquaviva,
Monteprandone e Monsampolo. Anghinétte,
alicetta. Cfr. franc. anchois, ingl.
anchovy.
Anguscère, aguglia comune (pesce di mare);
lat. acus.
Annànze, nnànze, davanti; tér'annànze,
va' avanti, continua a camminare.
Annassà (i dinde),
espressione difficilmente traducibile: vuole
indicare quel particolare periodo, nei primi
mesi di vita, in cui i denti cominciano a
formarsi e ad urgere sotto le tenere gengive dei
bimbetti, rendendoli insofferenti e spesso
agitati.
Annécelé, picchiare una persona fino ad
annullarla; dal latino nihil?
Anzìmbre, con la
caratteristica trasformazione di in
iniziale in an, già notata, si usa ancora per
dire 'insieme', e non è da escludersi che la
terminazione della parola accenni ad un
antichissimo sostrato mediterraneo: la parola
però oggi, sotto l'influsso della corrispondente
italiana, comincia a dirsi anzìme (o assìme,
derivandolo da 'assieme') o anche 'nzìme
per il fatto che il dialetto mal sopporta e
tende a sopprimere le vocali ad inizio di
parola. Anzìmbre ancora ad Acquaviva,
Monteprandone, Montefiore; 'nzembra a
Castignano, 'nziembra a
Spinetoli, come pure ad Ascoli. 'Nzìme
anche a Grottammare, ad Acquaviva, Monteprandone
e Montalto; 'nziema a Ripatransone;
nzieme - come ad Ascoli - ad Offida,
Castignano e Montedinove; 'nzieme a Cupra,
ove la e del dittongo quasi sfugge; 'nziemo a
Pedaso; 'nzima, 'nsemu, 'nzemo a
Campofilone; 'nzìme, 'nzemu e 'nzemo a
Montefiore; a Montegallo nzìma.
Apparà, coprire la visuale.
Appeccià, accendere;
ppeccià ad Offida e Montalto. Appiccià
è voce diffusa pure in Abruzzo. Dal
lat. pix, picis, pece.
Appertà, parteggiare.
Arculà, palombo (pesce).
Arevócce, dice il
popolo per dire pioppo (populus alba),
lett. 'alberello'. Ma sembra impossibile che il
primo nome sia solo corruzione dell'ultimo. È
probabile che invece sia una ricostruzione della
pronuncia dialettale del secondo su un nome più
antico: su aravicelos 'pinaster', che la
Treccani ci assicura nome ligure. Ad Ascoli
piuppe. Nell'area ove prevalentemente si
riscontra la u finale e gravitante su
Fermo e Macerata, arbucciu.
Arevùle, barra del
timone, da antica voce e non da ribolla - a sua
volta di identica derivazione - di cui pure
sembra corruzione, con a prostetica, come
nelle parole che cominciano col corrispondente
dell'italiano ri, iterativo o no,
mediante il cambio della b con la v e
lo scempiamento della l.
Arlevàcce, prendere le busse; ciarlève,
prendo le busse; a Roma ciarlevo.
Arrangà, 'rrangà,
arrampicarsi, dall'antico tedesco rank, 'storto',
con riferimento al caratteristico, faticoso
avanzare dell'azione indicata; dalla stessa
radice l'italiano 'arrancare', che propriamente
indica il modo di camminare dei menomati agli
arti inferiori e, per estensione, a chi procede
con difficoltà.
Arreféte, come si
dice di persona dai capelli scarmigliati e ritti
perché in preda all'ira: arrefé per
estensione, se riferito alle pelle, vuol
significare anche 'aggricciare': il lat. ha
rubus, col significato di rovo, pruno, spino
e anche rufus (voce ereditata dagli
Umbri), rossiccio, fulvo, se rammentiamo che i
'rossi di pelo', quanto a litigiosità, non hanno
mai goduto buona fama; ha anche irrufo,
rendere rosso; la voce è diffusa ad Acquaviva,
Offida, Monsapolo, Spinetoli ed Ascoli; a
Montalto M. prende la u finale.
Arrète, rrète,
dietro; jé' arrète, corteggiare, e ciò
evidentemente per il fatto che una volta - e
certo non in un tempo troppo lontano - il
corteggiamento della ragazza amata si riduceva
al seguire la stessa e non troppo da presso.
Oh!, gran bontà dei cavalieri antiqui!
Arrète e rrète ad
Acquaviva, Monteprandone, Offida, Cossignano,
Montefiore; e così ad Ascoli e Montegallo.
Artajàne, cormorano.
Artéste, colui che
esercita un'arte (non marinaio, non contadino,
non commerciante). Dal lat. ars, artis,
opera manuale. Il fatto che si dice artéste
in contrapposizione a 'marinaio' fa pensare
che altrove, nel passato, sorsero confederazioni
delle arti.
Attedijà, dar
fastidio.
Attefà, attefé,
appuzzare, rendere l'aria irrespirabile, dal
greco typhos, fumo denso.
Attendà, ttendà,
toccare, lat. temptare.
A-ttòrze, a zonzo;
vagabondando 'tturz jènne (o 'tt'(e)rzijènne,
come si comincia a dire): la parola deriva
dal fenicio tur, che ha lo stesso
significato del francese tour, 'giro';
essa dunque caratterizza il fannullone che non
ha voglia di fare nulla e perde il tempo a
camminare in circolo, senza scopo, oppure qua e
là senza meta, come un fiume tutto anse e
giravolte, attardato dalla pianura, che non
trova più la dritta via che conduce al mare.
Avà!, guarda!,
esclamazione sambenedettese che devesi ritenere
tutt'una con l'identica esclamazione còrsa, come
agevolmente si può rilevare da Agiacsio'
del Milanesi. Riteniamo che la voce sia stata
originata da una a prostetica unitasi
come proclitica a và (ultimo esito di
'uarda, 'guarda'). Ad Ascoli aguà.
Cfr. anche asì, nelle esclamazioni,
'senti' (asì, quandjè brave!, 'senti
quanto è bravo!'); avè!, 'vedi!'. Se
ricordiamo che nelle voci inizianti con ri,
iterativo o no (e anche in altri casi:
aspì!, 'aspetta!', avuto presente che
'aspettare' in dialetto suona 'spettà),
viene sempre premessa una a alla parola,
come abbiamo osservato, e che il fenomeno si
verifica pure a Roma, potremmo pensare che tale
soluzione sia esito di sostrato ligure,
ritrovandosi esso nell'area in antico occupata
da tale popolo.
Àzzeche, richiamo per
uccelli.
GERGO
(b)
Baràccule, nome col
quale i pescatori sambenedettesi chiamano la
'razza' o ‘arzilla' (raja clavata). "Baraccola
è una parola lasciataci in eredità dai pescatori
fenici. E’ difatti l'ebraico baraq, che
dà luogo, per metatesi, al punico Barca,
fulmine. Ricordare Amilcare Barca (Belli
fulmen.)." La Baraccola è una contrada
rurale di Ancona.
Baratele, nome di un colle al confine ovest
della città. L'oronimo è ligure.
Bardàsce, ragazzo.
Voce arcaica presente anche in Abruzzo. "Infine
bbardašš(e) che è un arabismo (bardağ,
di origine persiana) che ha
corrispondenti in altri dialetti dell'Italia
meridionale (cfr, calabrese bardascia, -iu)
e settentrionale (cfr. bolognese bardassa).
Baresèlle, non in
possesso di tutte le facoltà mentali;
letteralmente 'piccola barese': evidentemente da
qualche oriunda barese non completamente sana di
mente.
Battàne, piccolo
natante dalla chiglia piatta; deriva pure da
bot (vedasi alla voce abbettà, 'bbettà)?
A. Zamboni, comunque, parlando del Siculo,
afferma che "batane, patania, batanion
individuano chiaramente una tipica base
mediterranea bat-/pat- che è ampiamente
diffusa, comprendendo anche il tarentino
butine 'boccione', il greco putine 'bottiglia',
oltre al latino patena, -ina, patera."
Bbellàte, arrabbiatissimo, gonfio di bile.
Bbélle: 1.
bile; 2. rabbia, arrabbiatura. L'accezione di
cui al 2. si è originata dal fatto che
l'arrabbiarsi, almeno così ritiene il popolo, fa
gonfiare la bile.
Bbennèlle, striscia di tela.
Bbrescà, brescà, torrefare, tostare,
abbrustolire.
Berréte, vespro; nel
Dizionario dei dialetti piceni fra Tronto e Aso
di F. Egidi rileviamo, rispettivamente alle voci
bbrusco e llume, che la frase 'fra lusco
e brusco' ad Acquaviva e Montefiore diventa a
luce de bburre: dal basso latino "burus", 'buio';
alla voce abburrisse - ove viene
osservato che la voce stessa manca in Ascoli - a
Montefiore viene dato il significato di 'oscurarsi'.
Bòbbe, sorta di pesce.
Bòje (pronunciata
quasi boj), parola con la quale si
qualifica talvolta un ragazzo; non deriva
dall'italiano 'boia' ed è relitto
preromano; a meno che la parola stessa non debba
riportarsi, invece, all'epoca delle prime lotte
romano-galliche. Sci 'nu boj, 'sei
terribile'. Sono famosi, tra le stirpi galliche,
i Boi, nel cui nome è stato riconosciuto (Ernault)
appunto il senso di 'terribile’, da un etimo
indoeuropeo.
Bòttamaré, medusa (v, abbettà).
Bòtte: 1.
ondata; la voce è in relazione alla rotondità
dell'ondata stessa, come la parola italiana
'botte' (dial. vòtte) e 'bottone' (dial.
bettò) sono in relazione a quella degli
oggetti che indicano; 2. rospo (bufo vulgaris;
femm. in dialetto), certo con riferimento alla
capacità dell'animale a gonfiarsi; in tale
accezione, la parola è in disuso e non più
intesa, ma è testimoniata anche da G. Milanesi
che la ricorda quale soprannome di un certo
Isè (Giuseppe), "tagliatore", che un giorno
gli raccontò la terrificante leggenda
sambenedettese di lu scijò, da lui
meravigliosamente narrata in un suo libro
indimenticabile (v. abbettà). Bòdda, nel
dialetto della Versilia, è il nome del rospo,
come ci attesta Carducci (Opere, XXIV, p. 3);
nome che lo stesso Autore altrove (Opere, XXX,
p. 4) scrive botte; il Dizionario
della lingua italiana di G. Devoto - G.C.
Oli (Le Monnier, Firenze) scrive 'bòtta' (s.f.
tosc.) e precisa da un tipo germanico butta,
forse franco, che vale anche 'calzatura
grossolana'; 3. scoppio, forse sempre per il
tramite dell'idea della rotondità, da un
palloncino che scoppia.
Brellòcche, gingilli,
fronzoli appariscenti, false preziosità; in
romanesco brelocche. Cfr. francese
breloque, ciondolo.
Brescécce,
bruciacchiato; nome di un colle che inghirlanda
la città: G. Milanesi, a pag. 22 di Mar
Sanguigno, lo chiama Presicce.
Brève: lu brève è
una sorta di minuscola confezione in stoffa
a forma di cuore contenente spesso una reliquia:
si porta al collo con spago adattato a guisa di
catenella e come amuleto.
Brullà, l'azione di
lanciare le figurine di cartoncino o monetine
metalliche per aria, come usano i ragazzini nel
loro gioco inteso ad indovinare la posizione che
le stesse assumeranno ricadendo in terra, e che
ha per posta rispettivamente le figurine o le
monetine: pape e lèttre, dicono ancora i
ragazzi per 'testa' e 'croce', dove pape
ci ricorda che il nostro paese ha fatto parte
dello Stato della Chiesa.
Buàtte, ghiozzo,
pesce di scoglio. A Porto San Giorgio vuàttu.
Bummelétte, lumachina
di mare.
Burdetóre, aborto.
Buré (lu), nome di
vento freddo, rigido, agghiacciante. G. Speranza
mette a raffronto la parola con quella albanese
bor, significante neve o vento che la
porta, e la dice segno residuo dell'invasione
pelasga.
Buréne (la), termine
marinaresco per indicare la sagola che serve per
tesare, all'occorrenza, il lato più breve della
vela, in basso dalla parte della prora; ha la
radice nell'albanese bor; v. buré.
Buzzarò, scarafaggio
(a Monsampolo, Spinetoli, Cossignano carrande;
a Ripatransone asene carrà; a Cupra
buzzarò)
GERGO
(c)
Cacalóse, cisposo, da càchele (v.);
cacalùse a Castorano.
Càchele, cispa.
Cafòlle, tuffo. Fare
un tuffo, infatti, si dice in gergo fà 'na
cafòlle; per dire 'ti sommergo' si dice
te 'ccafòlle. La parola dovrebbe essere
derivata dall'ebraico (e quindi anche dal
fenicio) chaphaph, 'coprire'.
Calafà, calafato: per
quanto concerne il troncamento della parola, è
forse utile confrontare la stessa con l'arabo qâlafa
ed il turco kalfât; calafà anche in
Acquaviva e Monteprandone; calafòte a
Grottammare.
Calé o caléje (m.), nebbia, dal lat.
caligo (f.).
Calemmàsse, piombare giù dall'alto.
Canasse, mento; a Montefiore canasce.
Cannille (pl. cannije), cannolicchio
(ensis siliqua e solen vagina).
Capà, scegliere;
diffuso nei dialetti marchigiani nella forma
capare, come all'autorevole testimonianza
del Leopardi.
Capàce, forse; capaci ad Erice, nella
Sicilia occidentale.
Capé, entrare, ma nel
senso di 'contenere', 'trovar posto: n'ge se
capì, 'non ci si entrava perché non c'era
più posto'.
Cape-'àtte,
orecchioni: in Toscana dicono gattoni,
parola di cui cape-'àtte è la traduzione;
ricchió ad Acquaviva, capegatte a
Spinetoli, guangià a Carassai,
capegatte a Montegallo.
Capefùche, alare.
Capetà, capovolvere,
dal francese capoer, capovolgersi: l'it.
capotare è un neologismo. Me se capòte
lu stòmmeche, ho il voltastomaco (lett.: mi
si volta lo stomaco); probabilmente esito
franco.
Capevejà, sorta di pesce.
Carambòcchie,
mollusco dei Cefalopodi col corpo a sacco e
tentacoli, somigliante al polpo ma di forma più
allungata.
Caresà, rapare, dal
greco keiró, tosare, e keirás,
tosato. Verbo dal suono poco gradito ai ragazzi,
almeno un tempo, per via di certe ricorrenti
tosature estive che una volta usavano. Cfr. la
voce dialettale siciliana carusu che
originariamente significava 'tosato' ed oggi
indica il ragazzo utilizzato in modesti lavori
di fatica nei campi e massimamente nelle
zolfare. Caresà diffuso ad Acquaviva,
Monsampolo, Castorano. Caróse, taglio
completo dei capelli, a San Benedetto,
Monsampolo, Ascoli e Montegallo.
Carpa-sfòje, rete particolarmente adatta per
la pesca delle sfòje (v.). V. carpé.
Carpé, strappare con violenza, dal lat.
carpo, staccare, spiccare.
Carrîre, corsa (solo
di recente si è detto còrse), quasi lo
spagnolo carrera: chissà se debba
riferirsi a qualche vetusta parentela in comune
con gli antichi abitatori della penisola iberica
invece che ad una derivazione diretta.
Casciàre, gazzara,
con derivazione sia della parola dialettale che
di quella italiana da uno stesso etimo? Sembra
proprio di sì, se teniamo presente che si
differenziano per le note alteranze c/g e
cia/za.
Casciòle, castagne
sbucciate e lessate; casciòle ad
Acquaviva e Monteprandone; casciòla a
Grottammare e Cupramarittima. Egidi, alla voce
casciola, rimanda a cascelà, che
ad Ascoli (come cascíulà a Montegallo)
significa 'sbucciare'.
Casiata (fonte).
Riterremmo egeo il toponimo, che per G. Amadio
potrebbe essere invece una prova delle origini
fenicie di cui si parla a San Benedetto del
Tronto.
Catarètte, abbaino,
dal greco kataráktes, botola.
Cattóre, assillo,
accanimento: fatéje nghe 'na cattóre...,
'lavora con un accanimento...' (come se
lavorasse a cottimo).
Cavó, sorta di pesce.
Câze, calzoni.
Curiosità da notare è che letteralmente la
parola suona come dovrebbe la corrispondente
dell'italiano 'calze'. Che la cosa sia da
mettere in relazione con la caduta, nelle parole
dialettali, del ne finale?
Cazétte, calze,
calzini.
Cazètte, calzetta
(fare la).
'Ccungià, condire;
cfr. il cingolano conciae.
Ceccheràne, si dice
di chi non tace mai (cfr. col veneto ciàcola),
forse dal nome di un animale che non riesce
a zittirsi.
Cefèche, goffo (se
riferito a persona), cattivo (se riferito a
cosa). A Roma sciufèco.
Cenìlle, contrazione
di cechenìlle, vezzeggiativo di cióche
(v.).
Cepécchie,
sonnolenza.
Cèrne, setacciare,
dal latino cernere.
Cesbóje: 1.
vespero; 2. brusio rumoroso. Potrebbe derivare
da lucis et buio (dove la sillaba
iniziale 'lu' avrebbe assunto la funzione
dell'articolo: lu cesbóje). Di sera,
inoltre, le cose si confondono (si vede male,
non si capisce), ed il senso di 'brusio rumoroso
potrebbe discendere dal fatto che a lu
cesbóje (all'imbrunire) si notano il rumore
e la confusione della gente che si affretta a
tornare a casa. Cfr. lat. burus, buio.
Cevóleche, chiasso,
vocio confuso; la parola, praticamente
inalterata ad Acquaviva e Monsampolo
(rispettivamente civuleche e cevuleche),
diventa ciavurgu a Ripatransone e
cevurghe a Montalto; civurgu a
Montefiore e ciavurgu a Carassai.
Nella zona montana della provincia, a Montegallo,
ciavuleche.
Chiaranzàne, piccola
parte di chiaro in un cielo tutto plumbeo,
piovoso.
Chiaràte, sorta di
rudimentale ingessatura fatta con stoppa e
bianco d'uovo sbattuto, cara alla medicina
popolare.
Chichjàre: 1.
cicala; 2. la trottola di cui si servono i
bambini nei loro giochi; ad Acquaviva cìcela
(trottola), come fino a non molto tempo fa a
San Benedetto, dove infatti cicelà vuoi
dire 'girare come una trottola'. E sembra
proprio che le c della parola 'cicala'
riecheggino in dialetto un antico suono kj:
pronuncia dura, indubbiamente ariana.
Infatti, per sostituzione l/r ed ammutolimento
della vocale finale, si ottiene kjikjare;
con i/e nella prima sillaba e successiva
contrazione della le in i, kjkiàre.
Chieréne (masch.
chíeré) non ha un significato definibile
chiaramente in una sola parola, o meglio è una
parola quasi intraducibile in italiano; è un
dispregiativo, e potrebbe dirsi 'cattiva donna':
ma non nel senso che dona le sue grazie ad
altri, forse meglio 'donna di pochi scrupoli' e
nel contempo 'di lingua lunga'. Una strofetta
sambenedettese dice: Remettète le ajéne ca
mo' passe la chieréne ('fate rientrare le
galline perché adesso passa la chieréne').
Probabilmente era il soprannome (o il nome:
Chiarina?) di una donna che, se poteva farla
franca, s'approfittava anche delle galline
altrui.
Chióchiene,
giuggiola; zuzzera a Monsampolo e
Castorano; ad Ascoli zuzzela. La parola
sambenedettese, rispetto all'italiana, ci
richiama l'antica equivalenza delle lettere g
e c successivamente distintesi, la
pronuncia gutturale della c, nonché
l'alternanza 1/n. Cfr. lo spagnolo 'Josè'
(pron. Kosè).
Chjvelé, luì, genere di uccello dell'ordine
dei passeriformi.
Cì, bimbo,
certamente dal pretuziano cìtele, ormai
in disuso, troncato sulla sillaba accentata come
è norma nel dialetto in tutti i nomi al vocativo
(cfr. spagn. cico, 'piccolo'). Piemontese
cit, ligure pcitu, 'piccolo';
cittina a Pieve a Moiano (Arezzo), 'piccoletta'.
Da cit, citele, come da rota, rotula.
Ciammaróche, limaccia, lumaca. A Roma
ciammaruca.
Ciarabaldò, confusione rumorosa.
Ciarambògne,
cornamusa, parola che sembra formatasi per
contaminazione di 'ciaramella' e 'zampogna' e
che probabilmente deriva dalla radice o radici
da cui le stesse sono derivate; dal latino
calamus, attraverso il francese chalumeau,
dato che lo strumento è composto di canne,
si sarebbe avuto ciaram e bògne, dal gr.
phonía. Ciarambogne a Monsampolo e
Cupramarittima; cerambogna a Montalto M..
Ciarùle, orzaiolo,
dal latino varulus tramite l'alternanza
v/c cui si perviene da quella v/g, dato che g=c.
L'alternanza cia/za potrebbe far
ipotizzare nel sostrato tiarulus.
Ciauàrre, pasto
rituale che i contadini usavano consumare il 1°
maggio per festeggiare i prodotti della campagna
e come augurio per un buon andamento delle
coltivazioni e un buon raccolto. Composta di
grano, granoturco, segala, orzo, ceci, fagioli,
di tutti i cereali in genere.
Cicèrchie, sorta di minestra fatta con
farina di lenticchie e ceci (interi).
Ciceremmèlle, eroe di
una filastrocca popolare, proprietario di
animali dotati di... curiose qualità. Ne diamo
una strofa: Ciceremmèlle ci avive 'nu cane /
meccechì i cristiane / meccechì le donne bbèlle
/ vive lu cane de Ciceremmèlle! ('Ciceremmèlle
aveva un cane / mordeva i cristiani / mordeva le
donne belle / evviva il cane di
Ciceremmèlle!'). La filastrocca dovrebbe
essere di origine pretuziana, anche se ora
diffusa, oltre che nel vecchio Pretuzio, pure
nelle Marche meridionali.
Ci-cì (fare), sbirciare.
Ciciàlle, ombelico;
ad Acquaviva e Monsampolo cecette, ad
Ascoli cecitte, e ciò potrebbe far
pensare ad una derivazione di ciciàlle da
céce, 'cece', tramite cecélle; cfr. il
soprannome Ciciàttele. C'era infatti una
Contrada del Ciarrete a Patrignone, una volta.
Ciarreto è forma dialettale di Cerreto. Da
cecélle, allora, cicièlle; e la
necessità di mantenere dolce il suono della c
della seconda sillaba ha portato alla
geminazione di é (>a) in ia.
Cicileccò, ghiottone.
Cìcure, grosso
foruncolo; ciguere e ciequere ad Offida;
ciècure ad Ascoli, cìcure a
Montegallo.
Cillevalò: lett.
uccello volante? Si dice dei ragazzi e dei
giovani un po' trasandati, ancora da maturare,
come del resto vuole la loro età, e vanno qua e
là come gli uccelli senza fissarsi
definitivamente in alcun proposito. Nel
Dizionario dei dialetti piceni fra Tronto e Aso
di F. Egidi, alla voce cellu,
uccello, rileviamo che "l'espressione cillu
(o cellu) va là designa l'uomo svagato,
distratto"
Cìmbere, cembalo.
Cimire, sorta di
rozza scala, corta e larga, che in luogo dei
pioli ha tre o quattro brevi tavole, fissate con
chiodi e sporgenti un po' lateralmente, usata
dagli zaùtte (v.) per trasportare pesi.
Ciócche, sbornia.
Cióche, piccolo; la
parola è etrusca, secondo G. Amadio.
Come dal sostantivo cippo derivò
l'aggettivo zoppo, così dal nome tirreno
ciuca (cima del monte e per estensione
'sasso', usato quando piantato in terra come
simbolo del Creatore, ma da solo incapace a
reggersi) derivarono l'italiano ciuco e il
dialettale ciuco (a San Benedetto,
cióche). II primo passò a designare l'asino
in quanto sinonimo d'ignorante; il secondo nelle
Marche si usa nel senso di piccolo, perché i
bambini di pochi mesi non si reggono in piedi. A
Roma e nel territorio degli antichi Falisci,
ciuco.
Cijòle, diminutivo di
Lucia.
Ciórre, ciocca di
capelli; dal lat. cirrus, ciocca di
capelli ricciuta per natura. A Spinetoli
ciurre, come ad Ascoli.
Cióschíe, minuzzaglie
vegetali che il mare ributta sulla spiaggia
durante la tempesta.
Cîre, faccia con
espressione adirata, dal francese cîre,
volto, ant. franc. chiere; ceróte,
accigliato.
Cirre, tentacoli.
Ciurlijàte, offensiva
gazzarra a dispetto: sembra perfino curioso
confrontare la parola con l'abruzzese
ciurlijejje, delicato verbo riferibile agli
uccelli, dal significato 'cinguettano'.
Ciùtte, ciùttele,
sasso.
Co', còne, ragazzina,
bambina, quasi vezzeggiativo di frechéne
(v.), dal greco eikón (donde anche
l'italiano icona), immagine, per aferesi.
Cò', còne quindi significano propriamente
bella come una madonnina (Cfr. il soprannome di
una popolana "La Còne e l'idronimo
Rivo delle Cone, presso Pergola, in
provincia di Pesaro). Có praticamente è
la forma femminile di ci, di analogo
significato. F. Egidi non conviene: co e cone,
egli dice, vezz. e abbr. di cocca con
epitesi di -ne. Ma non può essere. In un
documento ascolano del 7.4.1507, riportato da G.
Fabiani, nel quale un certo M° Giuseppe di
Ascoli promette di dipingere una tavola
raffigurante la Madonna del Soccorso, è detto:
"...lo dicto Magro loseph promecte de pegnere
una cona in tabula con queste conditiune
cio e promecte de pegnere in dea tabula una Sca
M.a de lo soccurso... Item promecte pegnere uno
angelo in ditta cona et quatro che sia in
laero... Item farce una donna grane. Item
promecte di pegnere in ditta cona... Item
promecte de pegnere in ditta cona... Item
promecte scrivere in essa cona Sca Maria
succurre miseris, quam conam sive
picturam promisit dictus Mag. 2 loseph dare
pictam integre infra...". E in altro documento,
riportato dallo stesso Fabiani, nel quale M°
Bartolomeo de Norcia reclama la mercede
dovutagli per un dipinto: "...pro... carlenos
eidem debitos pro mercede et pittura cuiusdam
cone picte per dictum...". Cfr. anche greco
Kòre, fanciulla'. G. Amadio deriva il
toponimo Cognano, villa di Acquasanta, da
Conianum (sott. praedium), e quindi
da Conius. "Questo nome personale viene in
definitiva dal gr. eikón (immagine),
donde Iconium, città della Licaonia, e
Iconium, città della Troade. La prima esiste
tuttora. I Turchi la chiamano Konieh,
gl'Italiani, che commerciarono per tanto tempo
in oriente, la chiamarono Cogni. Dovette
il suo nome a un'effigie della Gorgone, posta su
una colonna all'entrata della città (...). Da
eikón si ebbe su labbra italiane icona,
donde, per aferesi, nell'Indice della Carta
Generale del Touring Club, tre località chiamate
Cona, sei denominate La Cona, poi
Palude di Cona, Cona della Rocca, Cona
del Ponte, Cona di Civitella, Cona 5. Agàpito,
Cona di Selva Piana, Cona Rovara, Cona Soprana,
Cona Sottana, Le Cone, Conetta, e dal turco
Konieh due località col nome di Conia,
nonché il vocabolo toscano, ora non più in uso,
conia, che significava 'chiasso';
divertimento; scherzo; burla; allegra brigata',
perché di queste cose (o almeno, anche di queste
cose) erano fatte specialmente nell'era pagana,
le feste campestri attorno a una sacra immagine
(...). Non diversa l'origine della parola conio,
per la figura che ne risulta sulle monete e
sulle medaglie. Oggi chiamiano Conia
l'antica Iconio, mentre i Turchi scrivono
Conya.".
Còccie: 1. testa;
così ad Acquaviva, Monteprandone, Ripatransone
ed anche negli altri centri della regione che fu
chiamata Pretuzio; a Roma coccia. 'Coccia
di morto', località presso Fiumicino. 2. al
plurale (variando solo l'articolo, rimanendo la
parola inalterata) indicava quella batteria di
stoviglie in terracotta, come si usava una
volta. G. Speranza mette in relazione la parola
con cheut, che in albanese vuol dire
pignatta, e la indica come residuo linguistico
pelasgo. Coccio in italiano significa pezzo di
un oggetto, in ceramica o simili, rotto.
Còchene (o còchele,
come abbiamo sentito pronunciare da qualcuno),
sassi grossi (lat. coclaee), sassi marini
o fluviali.
Còffe, sorta di
grossa cesta. La parola, sulla bocca dei
pescatori sambenedettesi, attraverso i millenni
ha saputo mantenere intatto il suo nome. Gli
indigeni libici, infatti, chiamano goffa
la cesta. La parola italiana 'coffa', di altro
significato, viene dall'arabo kuffa,
cesta; e l'arabo è affine all'ebraico e con
questo ed altri idiomi deriva da una lingua non
attestata, ma con certezza postulata dagli
studiosi, chiamata 'proto-semitico’.
Cógne: 1. cuneo (lat. cuneus); 2.
toppa (in un abito).
Cólanzénzere,
cinciallegra. A Monsampolo codanzenzere.
Cólerísce, seppietta.
Còre, in
sambenedettese, ha anche il significato di 'coraggio'.
Corneille usa coeur con significato di 'coraggio',
ad esempio in Le Cid (vv. 6 11-612): ...ils
ontàrdu le coeur - De se plus hasarder contre un
si grand vainqueut".
Córme, spianata al
sommo di una montagna, detta kormos dai
Greci (cfr. lat. culmus e culmen).
Còste, salita; fr.
cote.
Crellà, che non
deriva dall'italiano 'crollare' e significa 'scricchiolare'.
Indica il rumore prodotto da qualcosa che si
spezza.
Crèste, treccia. 'Na
crèste d'aje, una treccia d'aglio.
Cretaccio, nome di
uno dei colli che fanno corona alla città. Non
può assolutamente escludersi che il toponimo sia
in relazione con Creta e l'Egeo.
Crevellécce,
crivello; 'piccolo crivello', crevelléccétte,
usato per far cadere la farina del pesce da
friggere.
Cròcchie, stampella,
e anche nome di un animale (quale?) dannoso alle
coltivazioni, stando ad una cantilena sin oggi
pervenuta; crocchia è insetto nocivo alla
campagna, a Cupra.
Crucétte (lu), è il
'piede di pellicano' (lat. thericium).
Cucàle, gabbiano (larus
ridibundus). La parola dovrebbe essere
antichissima. La ritroviamo in bakókola,
albatro, vocabolo dialettale in uso nell'isola
del Giglio, e in cocài, come chiamano i
gabbiani nella laguna veneta; anche sull'opposta
sponda adriatica chiamano il detto volatile
quasi alla stessa maniera, e cioè galeb,
all'incirca il nostro cucàle, privato
della sillaba iniziale. 'Cocalo' si chiamò quel
re di Sicilia, ove Dedalo si rifugiò per fuggire
Minosse, irato col sommo artefice per aver
questi consigliato Arianna di munire di filo
Teseo onde non si perdesse nel Labirinto, dopo
ucciso il Minotauro. Il nome kokalos
compare già nelle tavolette micenee del 'Palazzo
di Nestore' a Pylos, di recente decifrate.
Cucchie (pl.
còcchie), scorza.
Cucciòle, mollusco di
mare (venus gallina); i Marchigiani
chiamano cucciola la chiocciola, come
alla testimonianza del Leopardi (Zibaldone,
11, 830).
Cuccó', sorsata.
Cuccurucù,
chicchirichì; il lat. cucurrire (Svetonio)
vale, come sembra, 'chicchirichì'.
Cucucciàre,
grillotalpa, quasi dallo spagnolo quacharacha,
di cui è metatesi, e chissà se per
derivazione diretta o per qualche vetusta
parentela in comune con gli antichi abitatori
dell'Iberia; ma più probabilmente da cucòccie
(sorta di zucca), forse perché l'animale la
preferisce.
Cufecchió,
sganassone; che sia da mettere in relazione col
dialetto accufecchià (v.), nel senso di
sganassone da stendere (o spiaccicare) per
terra? Si dice, infatti, 'nghe 'nu cufecchió
te remmande, cioè 'con uno sganassone
ti ricopro'.
Culà, fare il bucato,
dal latino colare; e la voce ci ricorda
il laborioso sistema usato dalle nostre donne.
Cumbanijà, mangiare
col pane qualcosa, pasteggiando a poco a poco.
Ci ricorda la miseria d'altri tempi del nostro
paese.
Cummètte, voce dal
gergo dei funai con cui viene indicata l'azione
di attorcere, per farne uno più robusto, più
fili di spago: dal latino cum mitto,
'metto insieme'; in Abruzzo e nel Molise 'ncammatta,
'aggomitola', cammatte, 'gomitolo'.
Cumócce, Giacomo (Cumétte,
Giacomino).
Curcià, rimboccare, tirare su; dalla stessa
radice da cui l'italiano 'accorciare'.
Curtesciàne, piatto
da portata; così ad Acquaviva e Monteprandone;
curtesciana a Monsampolo e Montalto;
curtegiana a Castignano.
Cuterézze, nome usato
per indicare le parti terminali del filone di
pane, e cuterò, per indicare la parte
estrema posteriore del pollo, sono probabilmente
da mettere in relazione, quanto a significato,
col toponimo emiliano Cogruzzo e
col cochorotio e Coderuzzo del
Fabrianese, col senso di 'cocuzzolo', 'altura'.
Cfr. salentino cutursu, 'parte inferiore
del dorso', del quale gli studiosi si chiedono
interrogativamente se possa accettarsi una
derivazione da cauda dorsi.
Cutórne, dal greco
cothornos, stivale; vocabolo tramandatosi
sulla bocca dei nostri pescatori, ai quali i
cutórne nelle tempestose invernate sono di
prima necessità. Preellenico sarebbe
kothornos, donde l'imprestato latino
cothurnus, secondo G. Alessio.
GERGO
(d-e-f)
Ddescèlle, piccolo
buco nella parte inferiore del tino da
bucato, tenuto chiuso con un cilindro di legno
che vien tolto per far uscire, all'occorrenza,
l'acqua dal tino stesso.
Cfr. francese
desceller e sceller, in italiano
rispettivamente 'dissigillare' e 'sigillare'.
Ddióse: si dice di
colui che soffre esageratamente di solletico;
ddegghiose a Spinetoli, ticosu a
Montefiore. Da tiche-tiche (v.),
per il tramite di ticóse e le alternanze
t/d e c/g, con caduta della g al
suo sopravvenire.
Dèrme, dal greco
derma, modello; parola tuttora viva sulla
bocca delle donne più povere che con una
macchina per cucire e la dèrme ancora
confezionano indumenti per i più piccoli della
famiglia. Derme anche a Monsampolo e
derma a Montefiore. Dharma in indù
significa 'norma'.
Descécche (la),
esprime quello stato d'animo che sopravviene
quando c'è tanto da fare che sembra non si debba
mai arrivare alla fine; di uguale significato,
ma più arcaico, la ngéprie. Descicca a
Montefiore; scicca, afflizione, a
Spinetoli ed Ascoli.
Desceplenà,
strapazzare, maltrattare, tormentare. 'Nnu
desceplenà 'ssu freché!, 'Non tormentarlo
codesto bambino!'.
Dicète, dite, in cui
è chiara la derivazione dal latino dicere.
Dijóne, digiuno; dal
latino ieiunium.
* * * * *
Ecché (1'e.),
è il pallino nel gioco delle bocce.
Erbètte, prezzemolo.
* * * * *
Facète, fate,
derivato dal latino facere.
Falleppò,
imbroglione. Faloppa è un termine usato
in zone dell'Italia settentrionale per indicare
persona bugiarda.
Fandé, giovanetto;
fandèlle, giovanetta. "Nell'Abruzzo come nel
resto dell'Italia meridionale mancano
completamente riflessi del lat. i(n)fa(n)s,
conservato dall'u. fante, sostituito
da altre innovazioni per es: in Calabria da
filiolus (figghiòlu) che manca
nell'Abruzzo." G. Alessio,
Osservazioni sul lessico abruzzese medievale.
Farfarille,
bricconcello; farfarielle a Spinetoli. A
Roma farfarello è il diavolo.
Farre, pasto
confezionato con granoturco in scaglie (non
ridotto a farina).
Feiètte: agli inizi
del '700 nelle Marche la misura per il vino era
la 'foglietta', poco più di un quarto di litro.
Fejème, fuliggine (lat. fuligo, fuliginis);
ad Ascoli fellegna.
Felàndre, filanda; -andra è
caratteristico suffisso mediterraneo.
Fellà, infeltrire, follare. Dallo stesso
etimo da cui fullones, tintori di porpora.
Fellaccià, qualità di
fichi di forma allungata e dalla buccia
nero-violacea; la voce rimane inalterata ad
Acquaviva e Monteprandone; fellaccià ad
Ascoli. Follaccià, felleccià, filliccià
nell'area che gravita su Fermo e Macerata.
Feneziò, fine. La
feneziò de lu monne, 'la fine del mondo';
dal latino finitio, onis, 'limite', 'delimitazione',
ecc..
Ferchètte, forchetta;
ma 'forchettata' si dice fercinàte: che
'forchetta' prima si dicesse fercéne?
Ferfecé (femm,
ferfecéne), forbicione, qualifica che il
popolo affibbia a chi ha lingua che 'taglia e
cuce', da fórfece (forbice, lat.
forfex), voce sabina. Osserviamo peraltro
che in ferfecé e ferfecéne si mostra
l'alternanza b/f che ritroviamo, nella
stessa parola, in Sicilia (furficiuní),
mentre nel romanesco si mantiene forbicione;
e il ritrovare tale alternanza in Sicilia,
ove i Sabini non sono mai stati, insinua il
dubbio che il sostrato etnico che lo provoca -
ritenuto Sabino - possa invece essere
accreditato a più antico popolo. Anche a Lipari
fuorfici sta per 'forbice'.
Fersóre, padella, dal latino frixorium.
Fertecchéne, forcina
per capelli; dal latino verticulum, e nel
caso verrebbe a saltare un'alternanza v/f dove
la f iniziale della voce dialettale
potrebbe essere la pronuncia ariana del segno
che ai mediterranei suonava v. Potrebbe
comunque ipotizzarsi, ma è improbabile, una
derivazione da forca / forchetta / forchettina,
da cui per metatesi fertecchéne.
Fertóne, fortunale; anche il romeno usa
"fortuna" nel senso di 'burrasca'.
Fetà, fare (l'uovo), è voce umbra secondo
quanto ci assicurano gli studiosi
il cingolano fetàre,
sgravarsi. Columella ha usato il verbo feto,
are in latino col significato di 'fare,
deporre le uova (di uccelli)'.
Fétte, fermo, voce umbra.
Fèzze, (dim. fezzòle, f.; fezzùle,
m.), matassa.
'Ffaìlle, Raffaele.
'Ffiaràte,
bruciacchiato, ma nel senso di bruciatura
superficiale, come si può dire della pasta di
farina che messa in un forno troppo caldo viene
avvampata di fuori e poco cotta dentro,
ricavandosene quindi un pane non commestibile
per stomachi delicati; o di una stoffa su cui
per disattenzione si è tenuto un po' più del
necessario un ferro da stiro caldo; e per
estensione 'sfiorato', 'passato vicino', tanto
da far sentire quasi la scottatura, ad esempio:
'lla sassàte a-l'ha 'ffiaràte su `n
gòcce, 'quella sassata l'ha sfiorato sulla
testa'. Ffiaràte si dice pure in altri
posti della provincia di Ascoli, come Montegallo.
Fiara a Montelupone, provincia di
Macerata, è la fiamma; e così pure in Ancona;
nella trecentesca Vita di Cola di Rienzo,
scritta in un dialetto romanesco da un anonimo,
troviamo fiariava, 'bruciava'; fiara
G. G. Belli chiama in romanesco la 'vampa'.
La parola può derivare da sharab (con
shin), nelle lingue cananee significa
'ardere' o anche 'essere arido' o ' secco’; la
parola stessa, con zàdhé in luogo di
shin, dà zarab, 'essere arso', 'acceso',
'bruciato', 'divampare'. Non meraviglierà la
mutazione di sh in f se si tiene
presente che in Sicilia (e i Siculi non furono
nel nostro territorio, prima ancora che in
quello chiamato poi Sicilia?) per 'fiori' dicono
sciùri. Cfr. la sciara dello
Stromboli, la strada del fuoco'". Passo di
Sciara è una frazione del Comune di
Castiglione di Sicilia, in provincia di Catania,
sulla circumetnea; d'altra parte abbiamo già
osservato nel Molise la trasformazione del nesso
latino fl in sc. L'albanese
zjarri è il 'fuoco'. Comunque la ricerca
delle origini etimologiche ha evidenziato una
seconda possibilità di derivazione: il latino
flagrare significa infatti 'fiammeggiare', 'avvampare',
'ardere', 'abbruciare': chiaramente, in questo
caso occorre notare anche la trasformazione
della parola, realizzatasi attraverso la caduta
della g, come del resto si riscontra in
Toscana e in altre regioni dell'Italia centrale
(negro/nero, integro/intero). 'Fiamma' viene
reso nell'antico toscano e in romanesco con
fiara: similmente per 'bruciare' l'antico
romanesco usava fiarare, mentre in
Abruzzo troviamo flarà.
Fiate, soffio (v.
refiatà).
Fiònghe, muffa (dal
lat. volgare fongus, lat. classico
fungus, da cui pure l'it. 'fungo': lo
sdoppiamento di o in io è da
presumere che derivi dalla pronuncia fi
di f); così ad Acquaviva e Monteprandone;
fionga a Montefiore; fiónga a
Spinetoli; fonga a Montalto; fiongu a
Campofilone; fonga ad Ascoli
Fràcete, dal lat.
fracidus (da fraces, 'sansa'), da cui
anche l'italiano 'fradicio', di identico
significato, per metatesi.
Fragne, schiacciare;
dal latino frango.
Frahàje, pesce misto
minuto.
'Frahiéme, autunno.
Certamente derivato dall'alterazione di una
particolare costruzione latina "infra hiemen
(=al di sotto dell'inverno, prima
dell'inverno)" usata al posto del corrispondente
"autumnus".
Fraillàte, mischiati.
Framéche, briciola (cfr.
lat. misca); framéche ad Acquaviva,
Monsampolo, Montalto: framica a Cupra e
Montefiore.
Franchino (Colle F.),
nome di una delle alture che inghirlandano la
città. Con tutta probabilità tale denominazione
nulla ha a che vedere coi Franchi.
Fratàsche, telline.
Fratte, siepe, dal
greco frakta. I non più giovani, a
San Benedetto, chiamano ancora Le Fratte
l'attuale Via G. Leopardi. Per G. Speranza è un
segno dello stanziamento pelasgo nelle nostre
contrade.
Freché, ragazzo;
frechéne, ragazza; freché e frechéne,
con una sfumatura di i nella é ove
la voce posa, ad Acquaviva e Monteprandone;
frechì e frechìne, con una sfumatura di é
che va man mano illanguidendo avvicinandosi
all'ascolano, a Ripatransone, Monsampolo,
Spinetoli, Colli, Castorano, Castel di Lama,
Offida, Cossignano e Rotella; fricu e
frica a Grottammare, Montedinove,
Cupramarittima, Massignano, Campofilone, Pedaso,
Montefiore e Carassai (a Cupra, in luogo di
frica usato anche frechìne); a
Montato friche (non totalmente desueto,
però, fricu) e frica o anche
frechìne. Ad Ascoli frechì e frechìne.
A Montegallo friche e frechine; a
Fermo, nel Fermano, a Comunanza, ad Amandola, a
Petritoli, a Macerata, a Civitanova fricu e
frica o frichietta. A Cingoli frichì,
bambino. Ad Ancona brechè, evidenziando
una alternanza b/f alla consonante
iniziale di parola. L'osservare ancora oggi ad
Acquaviva la dizione lu cifere (il bimbo
vivace) e ciferétte (per 'diavoletto',
evidentemente da Lucifero mediante separazione
della sillaba iniziale ritenuta articolo),
cifru e ciferittu a Montalto Marche,
cifere a Massignano ha indotto F. Egidi a
concludere che lu fricu è derivato, per
metatesi, da lu cifru; diminutivi di
fricu sarebbero frechì e freché. Tale
voce non oltrepassa il Tronto Soltanto nel
teramano fr(e)giì che corrisponde al
freghino dell'Umbria e al fricu del
marchigiano meridionale, in ultima analisi
immesso con l'italiano settentrionale fregare
(lat. fricare) in senso osceno, cfr.
fregator 'sodomita': vicinum sodomiticum quod
vulgariter dicitur buziron vel fregator (a.
1313, Treviso) S. GLI p. 251.
Fregnòccule, bozzo, gonfiore, tumescenza con
o anche senza leggera ferita.
Frescòtte, abbastanza
fresco. La modificazione intervenuta su quest'ultima
parola è la stessa per cui da Guido è derivato
Guidotto (e simili), capostipite dei nostrani
Guidotti.
Fresténghe, dolce
casereccio di cui le popolane si tramandano la
millenaria ricetta e che ancora si usa preparare
nella ricorrenza del natale. Fresténghe
si dice anche ad Acquaviva e Monteprandone;
frestinghe a Cossignano, Monsampolo,
Montalto M., Castignano e Cupra; fristringu a
Campofilone. In proposito, riportiamo quanto
dice Crocioni in La gente marchigiana nelle
sue tradizioni: "Assai numerosa risulta la
famiglia della Brusténga, detto anche
bustrénga, frusténga, specie di torta di
farina, uva sultanina, mandorle, noci, fichi
secchi, ecc., secondo i luoghi; dalla quale
derivano il frustengone o bustrengone,
focaccia più ordinaria, il prostingu e
frustinghu di Macerata, pistrínculu
di Fermo, l'ascolano pistringo e frestingo,
il pestringhe di Cupramarittima,
tutti press'a poco la stessa cosa."
Frèzze, fionda,
letteralmente 'freccia'. Che ciò accenni ad una
relazione con 1'epoca in cui la freccia si
lanciava con l'arco?
GERGO
(g – j - l)
(G)alïòle, maretta.
Galli (Fosso dei),
nome di un torrentello che segna, in parte, il
confine con Monteprandone e di una contrada
rustica della cittadina. È presumibile che anche
i Galli ci abbiano lasciato il loro bravo
toponimo. E ricordiamo che pure G. Guidotti,
appassionato cultore di storia locale, ci faceva
notare in proposito (con un bel punto
interrogativo) il cognome Lagalla, che prima
veniva scritto talvolta La Galla, abbastanza
diffuso a San Benedetto.
Gnassàte, si dice di
vivanda (a-ss'ha gnassàte) quando il
condimento si è solidificato.
Granzùle, chicchi di
grandine.
Grassèlle, sorta di
rana (raganella: lilla arborea); grascèlle a
Montefiore.
Grettelò (forse
animale di grotta?), nome che, per traslato,
sarebbe passato ad indicare una persona
sgraziata, lenta.
Grógne, grugno. In
Naevius, Bellum Poenicum, abbiamo
Runcus 'grugno', un centauro; da runcus,
con la g prefissa e con nc=gn, grógne.
Sgrugnate, col grugno rotto e anche, se
riferito a piatto o ceramica in genere,
scheggiato.
* * * * *
Jaccià: 1. giacere;
dal latino iacere, stare coricato,
mediante la trasformazione e/a. 2.
ghiacciare; dal latino glaciare,
agghiacciare. 'Agghiacciare' in dialetto suona
anche gnaccià, ed il cambio del nesso
iniziale latino gl nel dialettale gn
richiama l'alternanza lIn.
Jàqquere, nome di
quella porzione di rete che, in mare, porta i
pesci ad infilarsi nel "sacco".
Jé', andare, lat.
ire; e così i dialettali jème
(andiamo), jète (andate) non riescono a
nascondere la loro derivazione da imus, itis.
Jénnele, sorta di
piccoli pidocchi, lat. hinnulo.
Jèrve, erba (cfr.
lat. herba, spagn. yerba). Il
vocabolo si ritrova in tutte le lingue neolatine
e nel celtico, ma non ha connessioni evidenti
con altre lingue; secondo gli studiosi, quindi,
sarebbe un termine antico e mediterraneo.
Jnàsse: 1. chinarsi;
ora però si pronuncia chjnàsse: che sia
stata aspirazione del k(ch) in analogia a
quella della g? Oppure sia derivata da
una alternanza ch/j? 2.
affrettarsi; "La forma verbale aínate!, ajún(e)t(e)!,
'sbrigati', velletr. ainasse, march.
ainasse, sen. ainarsi, 'affrettarsi',
poggia in effetti sul lat. se aginare (Petr.
XXVI, 9) adattamento dal greco agineo
'spingo, conduco (il bestiame al pascolo)' voce
della pastorizia, diffusa probabilmente dalla
Campania; cfr. tosc. agina 'porzione di
pascolo assegnato ad un branco di bestiame'
(Alessio G., Hapax legomena ed
altre cruces in Petronio, p. 231
sgg.) ed è quindi voce documentata e non
ricostruita."
Jòme, gomitolo;
deriva dal latino glomus, con la consueta
trasformazione del nesso gl in j e
così jemà, aggomitolare, da glomerare
(jé jòme, io aggomitolo) o meglio, rifatto
su jòme, gomitolo; e da jòme, reciòme,
reciòmmele, 'rotola', o reciòle, come
comincia ad usarsi sotto l'influenza della
corrispondente parola italiana. La voce è
diffusa: arecemàsse a Grottammare;
reciumàrsi a joma a Montefiore; ad Ascoli,
per 'rotolarsi' è usato capecemmasse che
invece a San Benedetto e altrove (Monsampolo,
ad esempio) significa 'cadere capovolgendosi'.
Gghioma nell'ascolano, ma joma a
Montegallo. L'italiano 'aggomitolare' deriva dal
latino agglomerare (ad-glomerare).
Jvacché, Gioacchino.
* * * * *
Lamà, franare (se
lame, 'frana'); saremmo tentati di
ipotizzarlo dal latino delabor, franare
(o meglio labare, vacillare, star per
cadere) e labes, frana, mediante
l'accennato cambiamento di b in m, se non fosse
che G. Amadio fa propendere per una derivazione
dal fenicio. "La parola lama, a sinistra del
Tesino, è usata unicamente nel senso di 'frana'.
Altrove significa 'acquitrino; pantano; luogo
paludoso; luogo basso in cui ristagnano le
acque, palude’. Dante l'adopera solamente nel
senso di 'bassura' (Inferno, XX, XXXII, 96)",
dice l'accennato studioso.
L'affermazione abbisogna di
una rettifica. II vocabolo è inteso solamente
col detto significato anche a destra di Tescé
(Tesino). In italiano, peraltro "lama"
indica "pianura bassa in cui l'acqua
s'impaluda"; in latino, pantano, stagno,
palude. Studiando il toponimo Lama,
G. Amadio ci dà l'etimologia della parola nella
normale accezione: "Questo vocabolo viene
derivato da lacma, cioè dalla radice di
lacus e lacuna, 'laguna', donde il
significato di 'palude, acquitrino' e
'concavità' per contenere l'acqua. Varianti: il
greco lekamé, (catino), lekos
(piatto), lakkos (fossa). All'italiano
lama corrispondono l'antico slavo lomu,
il lèttone lama (fossa, palude), lo
sloveno lom, e il lituano lekmene
(lama). Da lak si ebbe per epentesi
lank, donde i vocaboli lituani lanka
(luogo depresso, concavo) e lenkit
(piegare, curvare), nonché il latino lank
(piatto della bilancia). lo credo che da lank,
con aumento prostetico sia venuto poi
calanco. E perciò riterrei che parente di
lama sia anche il m.a.t. Klamme
(burrone torrentizio), invocato da Luigi Lun (I
nomi locali del Sarentino, n. 682) per la
spiegazione del toponimo Kläml."
La parola lama, però,
nelle nostre contrade viene usata unicamente nel
senso di 'frana'; donde può esserle derivato
questo significato? Lo stesso G. Amadio,
parlando del toponimo Lamoli, ci conduce
in porto. "Lamoli (m. 600). Da Lamo. -
Dice il Fabre d'Envieu: 'Vi era ancora in Beozia
un ruscello chiamato Lamo, che si gettava in un
laghetto presso l'Elicone'. A Lamos egli
attribuisce il significato di cavità, buco,
marese, gorgo. E Lamoli si trova presso il
torrente Meta, che si è scavato il suo corso
scendendo dall’Appennino. - Anche in Cilicia
scorreva un fiume Lamo, al quale il nostro
Autore assegna anche un altro significato:
quello di abisso. - Lamoli è un piccolo
centro. Ma nell'Odissea (Canto X) Lamo è
anche la capitale dei Lestrigoni in Sicilia.
'Sei dì navigammo e notti sei: - e col settimo
sol della sublime - città di Lamo dalle larghe
porte - di Lestrigonia, pervenimmo a vista'
(trad. di I. Pindemonte). - Lamone presso
Diodoro Siculo, Lamo presso Stefano
Bizantino, è figlio di Ercole. - Lamo, re
dei Lestrigoni, è figlio di Nettuno presso un
antico interprete di Omero e presso Orazio. - Il
nome è fenicio e parente di Lamia (da
lehem, lehum, laham, 'mangiare'), perché il
fiume, dopo aver scavato il suo corso, corrode
le sponde."
L'accostamento del latino
lamia (orca, strega), nella credenza
popolare mangiatrice di bimbi, il richiamo ai
torrenti che 'mangiano' la ripa incombente e la
fanno franare, ci confortano nel ritenere il
nostro lama derivato, come lamia,
dal punico lahala (mangiare), molto
prossimo a lehem (pane). Lamà a Montalto,
Cossignano e Montefiore.
Lambà e 'llambà,
lampeggiare. Leopardi (Zib., 11, 1016) ricorda
che nelle Marche 'lampeggiare' si dice
lampare e allampare.
Langètte, tipo di
'legno' più snello delle paranze (v.), meno
resistente al maltempo e usato per la pesca
isolata, senza avventurarsi di solito troppo al
largo.
Lattaréne (la), il
latterino (atherina), e nella voce
dialettale, oltre il cambio di genere, deve
notarsi il cambio della e in a.
Lecèrte, lucertola; dal latino lacerta.
Lenguètte, attrezzo
usato dalla retare (reticellaia) nel suo
lavoro, a guisa di grande ago di legno.
Lente, lenticchia; dal latino lens,
lentis.
Leppecà, battibeccare.
Lèsche, spicchio (na lèsche de melarange).
Leva-lève: così si
davano la voce i pescatori quando ritiravano la
barca in secco o la spingevano in mare, mentre
erano sotto sforzo e la barca si muoveva
lentamente.
Llattà: 1. prendere velocità:
a-ss'ha 'llattàte, ha preso velocità; 2.
allattare.
Levégge, Luigi.
Lópe (la), lupa, fame smodata.
Luffe, osso sacro. Così ad Acquaviva e
Campofilone.
GERGO
(m)
Ma-anzèse, traditore,
persona infida, come Gano di Maganza, e questo
testimonia che il ciclo dei paladini, nonostante
l'analfabetismo imperante, fu noto e caro al
popolo nei tempi passati.
Magnane, sorta di pesce minutissimo.
Magnattàre, dovrebbe
essere il nome di una malattia o di una mania
ben determinata. Si dice, infatti, che pate
de magnattàre (soffre di magnattàre)
colui che è facile agli sbaciucchiamenti.
Si ritiene ne soffrano coloro che di latte
materno non ne hanno avuto abbastanza.
Majèstre, maestro; dal latino magister.
Mamàse, sorta di pesce.
Mamméne, levatrice. A Napoli mammàna.
Mamùsce, diavolo.
Mandécchie, parte più bassa della vela delle
barche.
Mandéle, tovaglia;
dal latino mantele (mantile), salvietta.
La stessa derivazione hanno mande (sorta
di vela), mandécchie (parte bassa della
vela), smandà (scoprire).
Mandràcchie: è così
chiamato il popolarissimo rione di pescatori
attraversato da Via Labirinto e dalle viuzze
parallele tra questa e Viale Secondo Moretti
(Via Gallo, ecc.).
Nel più ampio gergo della
gente di mare, ed ormai accettata nella lingua
italiana, la parola 'mandracchio' (da
mandria) indica uno specchio d'acqua che
nell'interno del porto veniva riservato alle
barche più piccole, da pesca, in modo che non
potessero costituire intralcio per i natanti di
maggior mole.
Il canale del Mandracchio, ad
Ancona, cinge il Lazzaretto, poderoso bastione
fortificato a pianta pentagonale.
È da ritenere che il nome al
rione sambenedettese sia derivato dal fatto che
sulla spiaggia della contrada, quando una volta
il mare la raggiungeva, venivano ormeggiate le
langètte e forse anche perché ivi
erano ammucchiave, a guisa di mandria, le
catapecchie dei pescatori. Nella nostra
infanzia, ricordiamo essere nei paraggi due
piccoli cantieri. Notiamo che Via Calafati, Via
Squero (v.), Via Pescheria, Via Ancoraggio, Via
Dogane della vecchia toponomastica
sambenedettese corrispondo nella nuova,
rispettivamente alle attuali Via Legnago, Via
Castelfidardo, Calatafimi, Viale Secondo Moretti
e Via Montebello. Il Mandràcchie è stato
anche chiamato Pajarà, ma con quest'ultima
denominazione veniva indicata una zona di
maggiore estensione comprendente, immediatamente
ad est del Mandràcchie vero e proprio,
anche l'area estendentesi verso sud sino
all'attuale Via Crispi. Pajarà significa
'abitanti delle pajàre', cioè di
abitazioni costruite con paglia e fango,
l'ultima delle quali è stata abbattuta
nel 1936, Ovviamente, la denominazione Pajarà
è successiva a quella di Mandràcchie.
Màngule, scalmo.
Ma'ò: in riva all'Albula
indicano con tale nome la chiocciola (elix
pomatia), che i Marchigiani in genere
chiamano cucciola (Leopardi, Zib., 11,
830); ma'ò è evidentemente corruzione
della parola da cui anche 'lumaca', dove il
lu iniziale si è staccato come fosse
l'articolo dialettale maschile (lu), cambiando
quindi il genere del nome dal femminile al
maschile.
Màpele: è una parola
di difficile definizione; si dice dell'uovo
immaturo, che manca del guscio solido; degli
orecchi (recchia màpele): praticamente si
potrebbe dire 'cartilaginoso', 'trasparente'.
Màpele anche ad Acquaviva; a Monsampolo
pàpere; ad Ascoli ràpele.
Maramè,
etimologicamente scomponibile in amara me,
da cui si potrebbe ritenere derivata per
corruzione. L'esclamazione, diffusa pure in
Abruzzo, è quasi una imprecazione contro se
stessi (talvolta le donne aggiungono
all'espressione la parola cundènde, 'contenta')
e viene usata, come una immediata smentita, in
senso di enorme meraviglia in opposizione a cosa
riferita, specie nei propri confronti, tanto
falsa che si vuol mostrare di ritenerla
addirittura incredibile. II suo significato
potrebbe riportarsi in italiano con 'amarezza a
me!'. Per il complesso significato della frase
più che per l'assonanza etimologica che potrebbe
trovare la sua spiegazione anche nella lingua
italiana, siamo portati a ricordare il verbo
ebraico (e quindi fenicio) "marar", "è
amaro", da cui la voce "mar", "amarezza".
Gli Ebrei, condotti da Mosè, chiamarono
"Mara", cioè "Amarezza", un luogo ove
trovarono acque amare, imbevibili (Esodo, 15,
23). L'ebraico marah significa
"l'amareggiata, l'addolorata".
Mara a chi cèrche ajóte!
(amarezza a chi cerca aiuto!), dice un aforisma
sambenedettese. L'espressione è nata dalla
mentalità di una popolazione abituata a battersi
da sola senza fidare in nessuno: la vita si
combatte e si guadagna da soli, da soli contro
le difficoltà che la povertà fa apparire
insormontabili. Se la salvezza non si trova in
se stessi, non la si troverà comunque.
Marano (campo M.),
nome di una contrada rustica situata oltre la
borgata della Madonna della Pietà, sulla destra
dell'Albula. Il toponimo è preindoeuropeo.
Marterìlle, si dice
di un frugoletto svelto. Marterìlle,
infatti, è la donnola ad Acquaviva.
Mascèlle, è il
'colorito delle gote', e non ha nulla a che
vedere con la parola italiana 'mascella'. Dal
latino maxilla.
Mase (la),
bevanda composta di acqua e aceto che i
pescatori delle nostre paranze e
langètte bevevano quando erano in mare, non
potendosi permettere il lusso del vino.
Masse: 1. al
femminile, sta ad indicare la 'farina impastata',
dal greco maza; G. Speranza annovera la
parola fra quelle che proverebbero l'antico
stanziamento pelasgo. 2. al maschile,
corrisponde all'italiano 'masso', 'macigno'.
Mastremócce, caricatura, burattinata.
Matézze, bonaccia parziale.
Mattetà, pazzia.
Mattre, madia, gr.
maktera; mattra a Monsampolo, Castignano e
Montedinove. Secondo G. Speranza, è
una traccia rimastaci dei nostri progenitori
Pelasgi.
Mazza-fiònghe o frèzze, fionda.
Mazzangòlle, mazzancollo, sorta di pesce
(penaeus trisulcatus).
Mazzeléne, sorta di
pesce, usato, insieme ad altri, per la
preparazione del ‘brodetto sambenedettese'.
'Mbanatóre: attrezzo
adoperato dalle retare per dipanare lu
fezzùle (v.) quando sistemavano lo
spago nella lenguètte (v.).
'Mbégne, finta; così anche ad Offida.
'Mbógne, puntiglio.
'Mbugnatóre,
impugnatura. Riteniamo che le parole 'mbogne
e 'mbugnato derivino da uno stesso
etimo, differenziandosi tra loro le alternanze
p/b e nt/gn, quest'ultima
credibile avendo a mente t/c e c/g
e l'inevitabilità della trasformazione di ng
in gn.
Meccecà: 1. mordere; 2. prudere.
Meccechìre, prurito.
Mechèche, moine.
Mejecàre, confusione; una volta, però,
indicava una malattia dell'ombelico.
Mejéche: significa
sia mollica che briciola; così anche ad
Acquaviva e Monteprandone. Mijèche a
Grottammare, mijìca a Cupra, mujìca a
Campofilone e Montefiore; mijica a
Castignano.
Mejèlle, muggine (mugil cephalus).
Melècche, è la
panòcchie a tre casche (v.) cui è stata
tolta la testa, rimanendo quindi solo il corpo e
la coda dell'animale.
Menecèlle, morbida.
Menine (la),
soprannome sambenedettese; lo spagnolo la
menina significa ' la damina'; il portoghese
menino, 'bambino'. Si potrebbe ritenere
che questo vezzeggiativo sia stato un omaggio ad
una bimba del popolo da parte di qualche
funzionario del consolato portoghese che
esisteva a San Benedetto del Tronto prima
dell'unità d'Italia. Las Meninas è
il titolo di un celebre quadro del Velàzquez. Ma
l'abruzzese (Gessopalena) menìnne, 'piccolo',
e il pugliese menìnne, 'bambino',
proiettano la parola molto più lontano nel tempo
prospettando parentele mediterranee.
Ménnele, ménola,
piccolo pesce di mare (lat. maena); cfr. gr.
mainē.
Dal diminutivo maenula del nome
latino, la voce dialettale.
Merè. Così viene
chiamato il bambino utilizzato nelle fatiche più
umili e di poco conto sulle paranze e
sulle langètte; sovente non era
trascorso troppo tempo da quando aveva imparato
a camminare sulla terra ferma che già lo
portavano a bordo a camminare sulla instabile
coperta, sottoposto alle affettuose angherie di
tutto l'equipaggio. Marò viene detto
tradizionalmte mozzo in tutto l'Adriatico. A
Venezia dicono morè. La parola non deriva
da 'mare', come potrebbe credersi, e qualcuno
vorrebbe sostenere derivi dal greco moderno
morós, ‘bambino'. Ci sembra impossibile.
Bisognerebbe mostrare come il greco moderno
possa aver influito su parole tanto antiche. Il
dilemma non può essere risolto che pensando al
fatto che anche il greco moderno deriva da
quello antico e che quindi la parola o è
pelasgici o minoica. Nella Marina Militare
Italiana sono detti marò i marinai
di alcune categorie tra le più umili e generiche
e quindi prettamente marinare.
Meréche, more (frutta di siepe).
Merèlle, piccolo
cilindro di legno, usato dalle retare (reticellaie)
per calibrare le maglie delle reti.
Mertàle, arnese per
pestare il sale. Dal francese mortaise,
incavo, dalla forma dell'oggetto. Probabilmente
esito franco.
Mestecà, mischiare.
Nella trecentesca Vita di Cola di Rienzo,
scritta da un anonimo in un dialetto romanesco,
troviamo misticarese per 'mescolarsi'.
Metatóre, un cambio di indumenti; identico a
móte de pagne.
Mignétte, pesce
minuto, di poco prezzo, consumato per lo più dai
poveri. Cfr. it. mignolo; cfr. fr. mignon (agg.),
delicato, carino.
Mmalamènde, malvagio
(così pure a Napoli): sostantivo sorto nella
stessa maniera che gli avverbi italiani
terminanti in mente quando, non distinguendosi
più le forme avverbiali latine per la caduta
delle desinenze, necessitò trovare per esse una
nuova forma e si fece seguire così l'aggettivo
dall'ablativo del sostantivo mens, mentis,
che successivamente s'incorporò
nell'aggettivo formando una parola sola.
'Mmazzamerìje, parola
già significante 'folletti' ed ora passata ad
indicare i 'girini' (cfr. Via Mazzamorelli a
Roma, ove mazzamurelli significa
'spiritelli' che si divertono a bussare colpi
sui muri) e ciò per il fatto che i vecchi
dicevano che i 'mmazzamerìje si vedeveno
llà lu fusse ('al fosso, come i
Sambenedettesi hanno sempre chiamato il torrente
Albula) e sul letto asciutto e pantanoso dell'Albula
i ragazzi non hanno mai visto se non rane o
girini. 'Mmazzamerìje ha conservato il
suo significato originario a Grottammare, a
Montefiore e Campofilone (mmazzamurilli),
a Spinetoli (ove i girini sono chiamati
mazzacrocche) ed Ascoli (mazzamerigghie).
Momò (sostantivo),
essere immaginario, terrore dei piccoli, col
quale si cerca di ridurre all'obbedienza i bimbi
irrequieti; o anche 'àtte mamò,
spauracchio dei fanciulli, lo stesso che il
Mormò dei Greci, simile alle Lamie
dei Latini. Nelle Marche, invece, la funzione
del Momò è assolta dal Bobò o Bobo.
A rilevare la differenza tra i
Sambenedettesi e gli altri Marchigiani giova
anche osservare che per il bimbo sambenedettese
invece il bobò è un qualcosa di
dolce (formato probabilmente da contrazione di
'buono buono') che la mamma promette per premio.
Da Momò o Mamò i Sambenedettesi hanno
derivato mamùsce, diavolo.
Mómmie, brontola fra sé e sé.
Mòre, livido.
Móscule, mitilo (mytilus
edulis). Dal lat. musculus (sorcetto),
diminutivo di mus, muris, topo e
nel caso particolare 'topolino'. Plauto in
Rudens dice musculos per indicare le
'arselle'.
'Mpapucchià, imbrogliare, raggirare.
Muccégne: parte di pescato che spetta al
pescatore.
Murre, il
frutto del gelso; dal lat. morus (gelso),
mediante la consueta trasformazione di o
in u e il raddoppio della r: da
osservare anche che morus è di genere
femminile e murre maschile.
Muscardine, polpetti.
GERGO
(n-o p)
'Ndemmà, danneggiare
(fisicamente); cfr. fr. endommager,
danneggiare. Probabilmente esito franco.
Ndevàte, urto di fiancata di un natante su
un altro natante o anche sul molo.
'Ndrefelléte, pieno, gonfio; si dice di chi
ha ingurgitato troppo. V. la trófe.
'Ndreppecà,
inciampare; così a Monsampolo e Spinetoli; 'ndruppecà
a Campofilone, Montefiore e Montegallo.
'Ndrìsce, di traverso.
'Ndrue, spola; trua a Monsampolo e
Campofilone, 'ndrughe a Cupra.
Nembatécce, ammasso di nuvole cariche di
pioggia.
Néngure, ingrossamento di un nodo linfatico,
solitamente all'inguine.
'Ngaló, come dicesi della posizione di cosa
che pende da una parte.
'Ngartecàte, compresso, pressato.
'Ngazà, calcare (il
berretto). Usato anche nel senso di
'punzecchiare' per aizzare, eccitare qualcuno
contro altro (cfr. scazà).
'Ngeccà, sbattere.
'Ngènne, brucia
(detto di ferita); lat. incendo, is,
bruciare, incendiare (con il solito cambiamento
di nd in nn).
'Ngiòcce, a cavalluccio.
Ngrastecàte, incastrato.
'Ngrècce, aggrinzato, forse. Fava 'ngrècce,
fave secche ammorbidite nell'acqua.
'Nnazzecà, dondolare, cullare. Voce diffusa
anche ad Ascoli ed in Abruzzo.
'Nneccàte, stordito:
più propriamente, 'nneccàte sarebbe uno
"colpito alla nuca", che ha "battuto la nuca
Nònne: 1. nonna; 2. nona, sonno di nove
giorni.
'Nzeppellà, mettere zeppe.
'Nzertà, innestare, fare innesti.
'Nzèrte, innesto.
* * * * *
'Óbbe: 1.
gobba; 2. nome col quale i nostri pescatori
chiamano il 'ghiozzo', sorta di pesce, (gobius
paganellus). Cfr. gr. kobiós.
Óva passe, uva secca;
lat. uva passa (Petronio, Satyricon, LVI).
* * * * *
Pacinzie, vuol
dire pazienza, ma in altra accezione la
pacinzie è un quadratino di stoffa
con nel mezzo l’effige della Vergine che si
porta appeso al collo per devozione. Confondendo
intenzionalmente il diverso significato delle
due accezioni della parola, quando a San
Benedetto un pescatore viene esortato alla
pazienza, risponde con frase non certo
ortodossa: la pacinzie facètte i pedócchie e
lu marenare la vettètte ann'acque ('la
pazienza fece i piddocchi e il marinaio la buttò
a mare'). Per la c in luogo della z,
nella parola, ricordiamo che la c si
trova in alternanza con la t e quest'ultima
in certi casi suona z in latino (cfr. 'bonaccia',
bunazze).
Pajéne, giovane
vanesio; nel cingolano, paìno; a Roma
ugualmente paìno. Termine
spagnoleggiante.
Pajùle, asse di legno
per coprire la sentina delle barche.
Palànghe, massicce
traverse di legno che si mettono, insegate,
sotto la barca nel tirarla a riva.
Pàndeche (te facce p.),
'ti riduco in briciole'.
Pandòsce (parola
composta da pan e tòsce), significa
"grande tosse". La prima componente del vocabolo
è senzaltro il gr. pan (tutto).
Panòcchie a trè casche,
astice (astacus gammarus).
Papagnùtte, nome di
imbarcazione sul tipo della langètte, più
grande però della langètte normale.
Paparàzze, pettine,
mollusco di mare protetto da conchiglia (lat.
pecten).
Pappardèlle, sorta di
fettuccine. È un nome risultato dal greco
pappazo, afferma Nicola Palma (Storia
Ecclesiastica e Civile del Pretuzio).
Parà, curare,
spingere innanzi le pecore. È derivazione
rustica del lat. parare.
Parànze, barche così
chiamate perché praticavano la pesca "a coppie",
piuttosto panciute e resistenti al mare.
Paré, sembrare; paróte, sembrata (cfr.
Boccaccio: paruta).
Parò, letteralmente
dovrebbe corrispondere a "padrone" (che in
dialetto si dice patrò) e significa
comandante di una paranze o langètte
o di una barca da pesca in genere. Cfr. il
veneziano paron. Nella Marina Militare
Italiana, "padrone" è chiamato il marinaio cui è
affidata l'imbarcazione che serve, ad esempio,
per portare gli ufficiali a terra da una nave in
rada. Sulle paranze, che pescano a coppie, c'è
un solo parò; sull'altra barca c'è lu
sòtta-parò; la scala gerarchica, a
discendere, comprende poi: lu seguàce
(marinaio anziano), lu jivenétte e lu
merè (v.).
Partannàre, partigiana, faziosa, non
obiettiva.
Pàssere, sorta di pesce.
Patràccule, bàttola,
arnese di legno che si usa come surrogato delle
campane per chiamare i fedeli in chiesa il
Venerdì ed il Sabato Santo, quando i sacri
bronzi tacciono.
Peccéne, mammella.
L'ascoltare l'anconetano pocia, pocie
(mammella) e altrove nel Piceno pòcce, ci
convince dell'idea che il sambenedettese
peccéne derivi dall'antica radice bot,
significante 'gonfiezza', per il tramite
delle alternanze b/p e t/c e
da poc(ce), a seguito di
vezzeggiativo, si sia pervenuti a peccéne
con o/e; la o della prima sillaba
si è oscurata come in móre/merétte
(muro/muretto) o pè/p(e)nélle
(piede/piedino) o ancora fòrbe/ferbétte
(polipo/polipetto).
Pedecò, fittone (detto di radice).
Pellécce: 1.
pelliccia; 2. estremità del tagliamare che
sporge sulla prua del natante a guisa di rozza
polena; 3. sudata.
Pennechèlle (la), pisolino. A Roma
pennichèlla.
Pepétele, come si
chiamano quelle pellicole che si staccano ai
bordi superiori dell'unghia della mano.
Pére, sorta di grosso chiodo di legno, dal
latino pirus.
Perfedejà, insistere.
Pèrseche, dal latino persicum, pèsca
o anche pèsco.
Pestré, frantoio, dal lat. pistrinum,
molino.
Petaròle: tipo di
rete di forma rettangolare, a base molto lunga
rispetto all'altezza, senza "sacco", per la
pesca di piccoli pesci nei pressi della riva.
Per usarla sono sufficienti due persone che la
trascinano afferrando due bastoni, posti alle
estremità più brevi (lunghi quanto essa è alta:
a tener aperta la rete) e inoltrandosi
nell'acqua setacciando il mare, si portano poi a
riva catturando i pesci sorpresi nello specchio
d'acqua delimitato.
Péte (allungando la
voce sulla é), pietà; dal latino pietas (cfr.
l'abruzzese pèite e il dantesco piéta).
Petécce, argomentazioni non obiettive.
Peteccià, ribattere parola per parola senza
mai cedere.
Petecciòse, litigiosa, attaccabriche (a
parole).
Peteléne, come si dice delle bambine leste
di lingua.
Peténghe (femm. petènghe), tirchio.
Petò, tacchino; il
vocabolo è stato assunto dal popolo a
simboleggiare la persona pensosa (detto locale:
pinze sembre còmma 'nu petò, 'pensi
sempre come un tacchino').
Pèule, pece.
Pianghe, grossa
pietra. E da pianghe, piangéte,
pavimento: la parola ci rammenta le primitive
abitazioni di una volta. Dal lat. planca.
Pignùtte, frutto del pino.
Pióte (m.), piòte
(f.), lento-a, riferito ad azione, a
persona; piote a Montedinove, piòta a
Montefiore, pióto a Carassai,
piute a Montegallo. Lat. plautus (o
plotus), piatto, largo; Plautus
propriamente: dai piedi piatti), Plauto,
cognome.
Pîve, la 'piena' del
torrente. Stralciamo da G. Alessio, che sta
parlando della voce prema, 'piena di
fiume: "Questa voce risale al latino
plenen-inis (presupposto dal lat. tardo
pleminare, 'riempire' nelle glosse), donde
l'abruzzese piemë; premé, praimë,
agon. sciàima, comp. chjema 'piena
dei fiumi'; abr. scema 'piscio di vacca'
già riportati ad un lat. region. + plema
dal gr. pleme 'il montare della marea',
semanticamente lontano, spiegazione contro la
quale sta l'abr. plëmënarië 'l'abbondanza'
-aria ed inoltre i riflessi
italiani meridionali di implemen e -plementum
per cui vedi A. LE pp. 219, 320; GF p. 311".
Per il sambenedettese
ipotizziamo il gr. pleme, mantenutosi
immutato nel latino regionale, pervenuto poi a
pieme, da cui pîme che, attraverso
l'alternanza m/v, è poi arrivato a
pîve.
Pópe: 1. forse una
volta si è detto così "bimbo" (cfr. romanesco
pupo e col significato della parola di cui
al n. 2.), dato anche che rimbambito" si dice
rembupéte, a meno che rembupéte non
debba invece collegarsi con l'accezione di cui
al n. 3; 2. bambola (la pópe oppure la
pupóne), cfr. fr. poupée in tale
accezione, probabilmente esito franco; 3.
pannocchia del granoturco (lu pópe). Da
pópe, pepétte e il soprannome Papettùle.
Póschie, schiuma.
'Pparà, coprire (la vista).
Prejébbete: si dice
di quei bambini che bisogna sorvegliare con
particolare attenzione, in quanto irriflessivi.
"L'agg. pruìbbete da prohibitus
non è certamente di tradizione popolare per la
conservazione di -b- intervocalico",
osserva G. Alessio, riferendosi all'abruzzese.
Presòre, fango,
sterco. I nostri pescatori usano il termine
anche per indicare un qualsiasi ostacolo
sottomarino su cui incappano con le reti,
riportando gravi danni alle reti stesse ed al
pescato.
Prezzà, dal tardo
latino pretiare, 'fare il prezzo'. Nel
dialetto però ha acquistato il significato di
'paura, timore': nen prizze, 'non hai
paura', 'non valuti il rischi che corri' ed
anche 'non mortifichi'.
GERGO
(q-r)
Quacquajó, bollicine,
ad esempio come quelle che salgono in superficie
nell'acqua che bolle.
Quajàte, cagliato.
Quàje, vesciche.
Quaraquàje,
pappagorgia. Ad Offida quaraquaglia.
Quatrille, grosso ago
usato per cucire le vele.
* * * * *
Rabbenà, prendere
tutto; dal lat. rapere.
Raccecà, raschiare.
Raccecatóre,
raschiatura. Più in generale, ciò che si tira
via dal fondo del contenitore.
Ràche, brucia,
pizzica (riferito alla gola: irritazione
prodotta, ad esempio, da certi peperoncini). Dal
greco racoo, lacerare; cfr. tedesco
raucher, fumare.
Ràchene, ramarro;
così chiamato dai sambenedettesi e in genere
dalle popolazioni tra il Tronto e l'Aso (a Roma
ràgano). Parola germanica che, secondo G.
Amadio, significa 'senno, intelligenza' e va
quindi riferita ai tempi dell'adorazione del
serpente, quando il Consiglio del popolo si
radunava intorno al 'recinto sacro', ove il dio
troneggiava.
Raciò, grappolo, e
óva ràcene, sorta di uva, secondo G.
Speranza sono da ricollegare all'albanese
rucs e al greco racs, vigna, e fanno
parte dello strato linguistico pelasgo nel
nostro dialetto. A titolo dubitativo non si può
fare a meno, però, di notare che in lingua
latina ‘grappolo' si dice racemus. In
luogo dell'attuale raciò, la Piacentini
diceva racì. E ancora racì dicono
a Montalto M., Cupra e Montefiore; a Monsampolo
e Spinetoli raciune.
Ragne o pèsce ragne:
è così chiamato il 'pesce vipera' o meglio
'trachino vipera' (trachinus vipera)
Ragnola,
denominazione di una frazione e un torrente di
San Benedetto. II nome deriva da un diminutivo
del tedesco ring. In un documento del
1010, infatti, trovasi 'rigo qui dicitur
Ringiolo'. Evidentemente i primi ariani nei
pressi trovarono un 'recinto sacro' e da esso
distinsero il torrente.
Ramàte, rete di filo
di ferro che si usa per delimitare i confini;
staccionata per segnare un confine fatta con
paletti intervallati sui quali è fissata una
rete di filo di ferro. Ramàte perché un
tempo si costruiva con rami intrecciati?
Rampazzo,
denominazione data ad un campo, come rilevato
dal Liburdi nel catasto sambenedettese del 1555.
Il nome dovrebbe essere di origine ligure. E
tale è anche il parere dei massimi esponenti
della cultura italiana, anche se talvolta lo
dicono più genericamente mediterraneo, come il
Pisani. La parola è ancora diffusa nella zona
col significato di grappolo o, più propriamente,
parte di un grappolo d'uva (v. F. Egidi:
Dizionario dialetti piceni fra Tronto e Aso,
alla voce rambazzu).
Range, rancido, fr. rance;
probabilmente esito franco.
Rasce, gruma; da grascia, a sua volta
dal lat. crassia (crassus, grasso).
Rasciàgne, usignoli,
derivato dal latino lusciniae (sing.
luscinia), mediante la già osservata
trasformazione della 1 in r, è
passato a significare, in bocca al popolo,
"raduno rumoroso"; e, da rasciàgne,
rasciagnùle, 'uno della rasciàgne’
(come trentarùle, un abitante della
vallata del Tronto), cioè usignolo (lat.
lusciniolus).
Ràteche, radice.
Rattattó', disordine,
confusione di cose o di persone; cfr. francese
ratatouille, voce spregiativa con la
quale viene indicata una sorta di grossolana
vivanda composta di avanzi vari: vi corrisponde
con una certa adeguatezza la voce ‘sbobba`, così
in auge fra gli italiani prigionieri di guerra
dei tedeschi. Ratatuglia o ratatuia è
voce del basso linguaggio dell'Italia
settentrionale e centrale e significa confusione
(di cose). In dialetto milanese ratatòja
vuol dire avanzume, rimasuglio: per i
Romagnoli, invece, ratatóglia significa
"subbuglio "improvvisa e gran confusione di
persone'. Probabilmente esito franco.
Rebbelà, lamentarsi, respirare
affannosamente, lamentosamente.
Recapà, togliere la
buccia; per estensione a-ss'ha recapàte
si dice di una ragazza quando la stessa -
che da bimba sembrava dover rimanere bruttina -
entrata in gioventù appare improvvisamente
carina, così come da un bocciolo insignificante
un bel giorno nasce un fiore.
Reccufecchià, ricoprire (v, accufecchià).
Refiatà, respirare (v. fiate).
Rembattà, far pari; dal gr. epatto.
Rembònne, l'andare di traverso (detto del
cibo).
Rembósse, bagnato di nuovo.
Remmacchià, riammagliare, rattoppare la rete
smagliata.
Remmeggià, ormeggiare, ed anche tirare a
secco la barca.
Renfrangà, pareggiare. La
parola si usa quando si promette genericamente di 'rinfrangare'
in un avve-
nire trattamento di favore che si chiede al
presente.
Renghìre: recinzione
intorno al balcone, parola poi passata a
significare anche il balcone stesso. Dall'ariano
ring, ‘campo recintato'. In Ascoli, nel
400, renchiera significò 'banco degli
oratori''-".
Rennetecà o revetecà,
imprecare, dir male, col senso la prima di
mettere per traverso, l'altra sottosopra: si usa
in genere quando si dice male della razza, degli
antenati.
Repònne, conservare;
sembrerebbe derivare dal latino ponere o
reponere, mettere in serbo: ma forse
trattasi di rifacimento su pono di parola
molto più arcaica: la doppia n di tale
parola, infatti, non è un raddoppiamento normale
di consonante, ma assimilazione di nd; i
bambini e gli incolti, e ciò avvalora l'ipotesi,
usando erroneamente la parola la riportano, nel
parlare italiano, col ripondere.
Reppèlle (pijàsse la),
insistere, argomentando vivacemente, per
aver ragione nella discussione.
Resbézzeche,
raccogliere ciò che è rimasto, ad esempio (dopo
la vendemmia o la mietitura) di uva, grano (v.
sbezzerà).
Resecà: 1. spolpare
(un osso); 2. delimitare un orlo, o una
qualunque estremità, tagliando le piccole frange
eccedenti.
Resèche, fessura.
Resecò, avaro, sparagnino.
Ressecà (i pagne), sfregare i panni dopo
l’insaponatura.
Retràzie, oltraggio.
Reursìne, serpentina,
nel senso di corsa a zig-zag, come usano fare i
bambini nei loro giochi per evitare che coetanei
di "parte avversa" li "arrestino".
Revececà, torcere
(gli occhi) e revescecà,
perquisire; forse dalla stessa radice e
l'accostamento potrebbe trovarsi nel significato
di rovesciare che hanno entrambi i verbi: nel
primo caso gli occhi, nel secondo le tasche.
Revósceche, arevósceche, perquisizione; ad
Ascoli arevrescina, fruga.
Revejé, ribollire.
Revetecà, imprecare (v. rennetecà).
Rezzàje, rete che,
lanciata a guisa di 'lazo', ricade in mare come
un ombrello aperto, chiudendosi poi ad
imprigionare i pesci per il peso di piombi
apposti ai margini; dal lat. retiarius
(reziario, il gladiatore che si batteva nel
circo con la rete) o retia, (reti)?
Róe, vicoletto; probabilmente derivato dal
lat. ruga (ruga, grinza).
Ròle, focolare,
inteso come base del camino, it. 'arola’ che
alcuni vorrebbero derivato dal fr. ròle
(ruolo), per sincope da rotle, a sua
volta pervenuto dal lat. rotula
(diminutivo di rota) ed il cui
significato primitivo dovrebbe essere "cerchio";
noi non possiamo non confrontare ròle con
il lat. ara, altare, di cui il latino
arola è il diminutivo, tenuto anche conto
che il fuoco nell'antichità veniva conservato
nel tempio. La dimora domestica è lo spazio
sacro per eccellenza, in cui brilla il fuoco
unico: il fuoco domestico; e il capo famiglia è
l'unico sacerdote, che sacrifica per se stesso e
per il bene dei suoi.
Róscie,
rasente. Dal lat. ràsurn, (da rado),
rasentare, strisciare, mediante la
trasformazione di a in ó e di s
in sc, già in precedenza notata.
Ròspe, rana pescatrice (lophius
piscatorius).
Rracanéte, arrochito; da mettere in
relazione con ràche (v.).
'Rrafanate, graffiata ('rrafanà,
graffiare).
'Rrarrà, termine per indicare l'azione
confusa del piglia-piglia.
Rrefelóse, impulsivo
(femm. rrefelòse): si dice di persona che
si arrabbia subito, come i "refoli" del vento
che vengono e vanno d'improvviso, senza
preannunzio.
'Rregnàsse,
accapigliarsi. Non possiamo non confrontare il
verbo con lo spagnolo renir (pron.
regnir), contendere e renidor (pron.
regnidor), attaccabrighe. Derivazione
diretta o antica parentela? La voce è diffusa
anche ad Acquaviva ed altrove. Non possiamo
peraltro tralasciare di riferire una plausibile
spiegazione che ne dà il Bonelli e la
riprendiamo da F. Egidi nel Dizionario dei
dialetti piceni fra Tronto e Aso: "rissare
all'uso di regno, dei regnicoli,
confinanti col Piceno, oppure dalla frase "fare
a rregna", fare al regno (forse un gioco in
origine, come il "fare a papa", tuttora vivo)
passata a significare 'azzuffarsi' e'darsele di
santa ragione' (Le Somiglianze, p. 120)."
Ruà, domandare,
richiedere; dal lat. rogare, con la nota
mutazione di o aperto in u, la
consueta caduta della g e la perdita del
re finale, come in tutti gli infiniti.
Presso il popolo ha però assunto il significato
di 'parlare con prepotenza, arroganza'.
GERGO
(s)
Sajetté, peperoncino;
saettì a Montefiore; saittì ad
Ascoli.
Salébbrece,
gamberetto marino, crostaceo dei macruri
ascritti al genere leander.
Sambìtre (pèsce),
pesce san Pietro (Zeus faber).
Sance (fà s.):
espressione usata dai bambini durante lo
svolgimento di un gioco molto popolare, i
véve e i murte ( i vivi e i morti ),
consistente nell'abbattere con una pietra
alcuni mezzi mattoni posti all'impiedi e
rappresentanti i concorrenti, amici e nemici.
Cominciava il tiro chi aveva lanciato la pietra
più lontano dai mattoni. Chi invece dichiarava
il facce sance, rimaneva con la sua
pietra vicino ai mattoni, evidentemente fidando
sulla scarsa mira del "nemico" o sull'eccessiva
distanza del punto di lancio; una volta scampato
il pericolo, era sin troppo facile decidere
della sorte dei concorrenti ("resuscitare" un
amico "morto", il cui mattone era posto solo un
po' più indietro, o uccidere un nemico)
scagliando la pietra a colpo sicuro contro il
mattone prescelto. Per il suo significato di
potere decisionale, è probabile che
l’espressione discenda dal latino sancire.
Sanéce, cicatrice;
sanìcia a Monsampolo, sanìce a
Castignano, sanicia ad Ascoli. Cfr.
latino sanescere, risanare, guarire.
Sapa, mosto cotto,
come lo chiamano i contadini, Dal greco
sanapa: traccia dell'invasione pelasga,
afferma G. Speranza.
Sardèlle, sarda
(sardina pilchardus).
Sarràche, aringa
(affumicata).
Sarvavé, imbuto; a
Cingoli sarvavè.
Sbarzòcche, il
bracciante di mare che si occupa dello scarico
del pesce e di altre operazioni accessorie.
Sbettà, scoppiare (v.
abbettà); sbuttà a Montefiore e
Montegallo.
Sbezzà, tagliare le
punte. Da pézze, pizzo, con s
premessa e alternanza p/b.
Sbezzerà, mangiare
come un uccellino, cioè staccando le punte (v.
sbezzà).
Sbreccecóse, ruvido.
Sbreccecuse a Monsampolo, sbriccicusu
a Montefiore.
Sbuà, sviare.
Sburdejò, è il
passo dell'ubriaco che scarta improvvisamente,
ballonzolando, di lato (stessa radice, da cui l'it.
'bordeggiare', più s premessa?).
Scafe, battello. Dal
greco akafos, e segno dell'antica
immigrazione pelasga, a parere di G. Speranza.
Scapelà, dal lat.
scopulus (gr. skopelos), scoglio,
alta rupe, che nel nostro dialetto assume il
significato di 'evitare a malapena (per un pelo)
un improvviso ostacolo'.
Scapijate, senza
cappello (lett. scapigliato, cioè coi
capelli al vento).
Scaròle, pianta
affine alla cipolla, it. scalogna, dal latino
ascalonia, a sua volta derivato dalla città
palestina di Ascalona.
Scarpéne, scorfano,
sorta di pesce.
Scazà, 1.
mettersi a piedi nudi; 2. cercare con domande
subdole di capire qualcosa su un fatto, sapendo
che l'interrogato non risponderebbe mai a
domande dirette; 3. nettare (le unghie); v. 'ngazà.
Scejà, vogare all'inverso.
Scéje, scia.
Scengecà, scuccinijà,
scuotere fin troppo vigorosamente. La seconda
parola è evidentemente derivata da còccie,
la prima forse da cénge, 'cenci', con
valore di misere vesti.
Scengiàte, in
disordine (con le vesti o i capelli),
scompigliato; da cénge (cencio).
Scengiàte ad Ascoli e Monsampolo;
sciangiàte a Castignano.
Scerrijàte, scarmigliato; con tutta evidenza
della stessa parola latina da cui ciórre (v.).
Scettenejà, scuotere.
Schiàfene, leggera
macchia biancastra che si forma sulla pelle per
malattia della stessa.
Schiànde, raspello (d'uva).
Schiòne, leziosaggini.
Schippà, sbattere.
Sciàbbeche, sciabica:
imbarcazione lunga, manovrata a remi e usata per
la pesca strettamente costiera. La sciabica
lasciava a terra parte della ciurma e
s'allontanava verso il largo 'filando' un cavo
(reste), al quale all'occorrenza veniva
aggiunto un secondo, un terzo, ecc.; dopo
l'ultimo cavo e legata ad esso, veniva calata in
mare la rete distesa a largo arco, quasi
parallela alla spiaggia; poi la barca tornava a
riva 'filando' altrettante reste che
nell'andata. Quivi, gli sciabbecùtte a
forza di braccia ed aiutandosi con gli
strùppele (v.), tiravano i cavi a terra
parallelamente da ambo le parti, trainando la
rete e restringendo mano a mano le distanze fra
le due "squadre". Era difficile che il pesce
sorpreso nello specchio d'acqua potesse
sfuggire: la rete era tenuta in alto da sugheri
e distesa verso il fondo da piombi (la mazze)
e terminava in un "sacco" (lu
sacche). Tale pesca era particolarmente
praticata nelle stagioni in cui i pesci migrano
a branchi.
Sciamannàte, disordinato, scomposto.
Sciambagnò, compagnone; cfr. fr.
champagnon. Probabilmente esito franco.
Sciangenà, strascinare voltolando qua e là.
Sciaulètte, cordicella.
Sciaunìlle, nome di imbarcazione del tipo
della langètte (v.), ma più piccola.
Scijò, tromba marina.
I pescatori, ritenendo ancora le credenze dei
primi che solcarono l'Adriatico, credono invece
che lu Scijò sia un turbine apocalittico
di spiriti malefici. V. la narrazione che G.
Milanesi fa della leggenda adriatica in Mar
Sanguigno. II fatto che un soprannome al
femminile suona Sciùne ci fa pensare - e basta
solo togliere il femminilizzante indoeuropeo per
recuperare il maschile del nome - al dio egizio
dei venti Shu, che quindi ci riporta
all'antica pronuncia del nome.
Scíò! Sciò!, come
dicono ancora le popolane di Via Labirinto,
vedendo un vigile spuntare di lontano, alle
galline spintesi a razzolare sulla strada, per
incitarle a tornare indietro. La parola viene
dall'ebraico sòb (pron. sció, che
significa: tornate indietro!).
Scippà, togliere, cavare (scíppà 'n'ucchie,
cavare un occhio).
Sciróje, senza
cappello e con insita anche l'idea del disordine
dei capelli. Con tutta evidenza dalla stessa
parola latina da cui ciórre (v.).
Scòtte, termine
marinaresco: è il cavo che, munito di speciale
carrucola, viene usato per raccogliere il vento
nella vela.
Screfèlle, macchie
squamose provocate da una malattia della pelle.
Screfellóse, chi ha
quella malattia della pelle che provoca le
screfèlle.
Scrèlle, piccola scheggia (quasi ago) di
legno. Cfr. crellà.
Scrucíà, tormentare; lat. excruciare.
Scucchià, togliere la
scorza; da cucchie (v.).
Scucchiarìje, piccoli
sgombri.
Scùcchie, mento
prominente. Voce etrusca, secondo P. Bonvicini.
Scuccinijàte, v.
scengecàte.
Scunecchià, rompere
le giunture, le ossa; maltrattare, pestare. A
Roma sconocchia, 'disfa'.
Scuppécchie, la
pellicola che copre il chicco d’uva.
Scheppicchia ad Ascoli e scupicchie a
Montegallo.
Scuterà, scuturà,
scuotere. Scuturà ad Ascoli, Montefiore e
Montegallo.
Sdejenà, rompere il
digiuno.
Sdeleffàte, da
luffe (v.): la parola viene riferita a
persona che cammina in maniera tale che sembra
abbia l'osso sacro rotto.
Seccàgne o,
come dicono ancora i nostri vecchi, scàgne
è la secca, il banco di sabbia che il
vento forma ad intervalli, man mano che ci si
allontana dalla costa, nel fondo sottomarino.
Sellècchie, fave
fresche con tutto il baccello. Dal lat.
siliqua, baccello dei legumi.
Sellózzeche,
singhiozzo (dal lat. singultus, previa
metatesi e trasformazione di n in l?).
Sellùzzeche a Monsampolo e Spinetoli.
Senà la reste, voi
dire 'acciambellare la corda' con la quale è
stata rimorchiata o tirata a terra la rete, per
rendere più agevole il trasporto ed impedire nel
contempo che si formino nodi o viluppi.
Serchià: 1.
succhiare, aspirare avidamente; 2. rimuovere la
terra intorno alle radici di una pianta.
Sfòje, sogliola (solea
vulgaris).
Sfraià, schiacciare.
Sfragghià ad Ascoli; sfrajà a
Montegallo.
Sgaliscià, scivolare.
Scaliscià a Monsampolo; sga]iscià a
Spinetoli. Da cfr. col fr. glisser:
l'acquisizione al dialetto è antichissima, da
una comune radice, come dimostra la pronuncia
dialettale (g/he/lisser), che è ariana e
che con s premessa e mediante alternanza
e/a diventa sgaliscià.
Sganassà, rompere la
canàsse (v.).
Sgavedà, perdere.
Sgréjà, districare
(detto dei capelli).
Sguéjà, scivolare,
nel senso di 'scappare dalle mani'. Cfr. dial.
umbro se sguilla, si sdrucciola.
Sìssele, arnese di
legno di cui si servono i pescatori per togliere
l'acqua penetrata nella sentina delle loro
barche.
Smannà, slogare; voce
diffusa in genere in tutta la provincia.
Smahàte, angosciato.
Smarrà: 1.
rovinare il filo del taglio; si dice di
coltello, scalpello, ecc.; 2. levar l'ancora.
Smeré, spegnere.
Sóre: 1. sughero; 2. suro, sorta di pesce.
Sòrte: 1. specie, cfr. fr. sorte;
probabilmente esito franco; 2. sorte, destino.
Sóve, salire; dal lat. subeo, mediante il
solito passaggio dalla b alla v.
Spalijà, sparpagliare.
Sparràte, fazzolettata (v. sparre).
Sparre, fazzolettone da spesa.
Speculà, spiare; dal latino speculari.
Spelleccà, spiluccare; da pèlle, con
s premessa?
Speziàle, farmacista.
Spezzélle (pl.
spezzèlle), malleolo; lat. paxillus,
caviglia. Nell'italiano delle ascolane del 1596:
"Ancora ne oppone al nostro vestire con dir
(...) che mostremo l'osso pazzello esser
cosa troppo desonesta." Lo stesso G. Rosa, nelle
voci ricordate al Cap. Dialetto piceno (pp. 303
e segg.) chiama il malleolo 'passillo'.
Spóle, scheggia di legno, sottile come un
ago.
Spòse (lu, la), fidanzato-a; lat. sponsus,
fidanzato e sponsa, fidanzata.
Spóze: nel gioco delle carte si dice di
stare spóze quando non si ha alcuna carta
valida.
Sprepestàte, qualifica che viene affibbiata
a persona di mala nomea.
Spretàte: 1.
spretato; 2. spaurito. Ucchie spretàte,
occhi spauriti, in dialetto anche ucchie
sprevéste (v.); nel fermano e nel maceratese
occhi scarbellati
Sprevéste, spaurito (v. spretàte).
Spriscià, spremere, strizzare.
Squacquaràte, risata sgangherata.
Squàrchie, fandonia,
anzi più propriamente, cosa con un fondo di
verità ma ingrandita con enorme esagerazione.
Squarchiò, colui che racconta squàrchie
(v.).
Squère. C'era una
Via Squero, una volta: era l'attuale Via
Castelfidardo. La parola è in disuso e non è più
intesa nel suo significato. Lo squero è
un piccolo cantiere per costruzioni e
riparazioni di barche in legno. La stessa parola
intesa nell'identico significato a Venezia, e
questo sembra accennare la provenienza da un
popolo che in antico dominò il mare.
'Ssémbre, crusca;
parola forse ricostruita sull'italiana semola,
ove è da notare 1a caratteristica terminazione;
`pane di crusca', però, si dice pà' de
tretèlle (cf lat. triticum, frumento,
grano); ssìmbra a Montefiore. Sìmmela
ad Ascoli.
Spriscià, strizzare,
ad esempio, i cìcure (v.).
Figurativamente, va sprescènne i cìcure,
interrogare astutamente, stuzzicando, per
raccogliere le chiacchiere della gente: immagine
poetica, quasi tirare fuori la marcia, le
cattive parole, le azioni segrete.
Steccà, che non è
corruzione, come a prima vista si potrebbe
credere, dell'italiano "staccare" e significa
"spezzare"; llu féle a-ss'ha steccàte,
quel filo s'è spezzato; steccàte,
inteso come nome, assume il significato di
"chiasso confuso": che jè ssu steccàte!.
Stîre, palombo, sorta di pesce.
Straccàle, bretelle.
II tedesco strick, tirella, potrebbe far
pensare ad una derivazione teutonica, a
ricordarci le invasioni barbariche. C. Merlo
annoverando trakolle, bretelle tra i
Vocaboli dell isola del Giglio, aggiunge in
nota: "V. il lett. tracòlla 'striscia di
cuoio che portano i carabinieri a sostegno del
moschetto' e il modo avv. a tracolla."
Ciò potrebbe anche farci pensare ad una s
prefissa e ad una trasformazione di o in
a.
Stràcche, stanco.
Stradìre, netturbino,
lett. quasi 'stradaiolo , con tutta probabilità
perché nei tempi andati l'immondizia ed i
rifiuti venivano ammonticchiati nel bel mezzo
della via dalle famiglie abitanti le case
prospicienti la stessa e quivi veniva raccolta
dagli stradìre.
Staiccià, acciaccare (abiti, camicie).
Stràtteche, crampo.
Stravalecà,
vaneggiare, di cui la prima componente è
senz'altro il latino extra; stravalecà
anche ad Acquaviva, Monteprandone,
Monsampolo e Spinetoli.
Stravìnde, vento impetuoso.
Stréfele, grido; strefelétte,
gridolini.
Stregnelóse, smorfioso.
Strengulàte, strattone, rincorsa.
Strescecò, torsolo. Nell'area fermana e
maceratese stroncecò.
Stròppele, termine marinaresco, stroppo
(tardo lat. stroppus).
Surtù, soprabito. Cfr. francese sour
tout.
Sva, Slavi (o Schiavi, cioè Schiavoni?).
GERGO
(t - u)
Tabaccò, totano (sorta di pesce).
Tacchiarèlle, legna
tagliata a liste sottili; tacchia in
romanesco significa 'un pezzo di legno'.
Tartàne: tipo di rete
a strascico, usata dai nostri pescatori. In
italiano tartana significa 'piccola nave
da carico o da pesca'; nei vocabolari trovasi
registrato tuttavia, sotto la precisazione di
"termine di pesca", anche il significato di
‘rete a strascico’; è evidente peraltro che non
la parola sambenedettese è derivata da quella
italiana, bensì quest'ultima dal gergo dei
pescatori. Per tartana ormai s'intende anche,
derivandone il significato da omologa parola
esotica, quel tessuto di lana comunemente
qualificato come scozzese. In verità con la voce
tartan gli inglesi distinguono il
caratteristico disegno scozzese, con le sue
ripartizioni quadrangolari intersecantisi;
tartan sarebbe derivato dal francese. In
francese abbiamo tartan che alcuni
vocabolari riportano in italiano con 'tartano'
(tela), altri con 'tartana' (stoffa); il
francese tartane è l'italiano 'tartana'
(nave, piccolo bastimento); la rete a strascico
e la rete a sacco i Francesi la chiamano
indifferentemente chalut. La voce
tartàne, quindi, non è stata mutuata da
alcuno: è nostra, anche se non solamente nostra.
Tepélle: si dice
dell'acqua e significa 'tiepida' (dal lat.
tepère?). A Roma si chiamò Aqua Tepula
(dalla temperatura piuttosto elevata) quella
che, captata presso i Colli Albani, fu portata
nell'Urbe nel 125 a.C. dai Censori Cn. Servilio
Cepione e L. Cassio Leongino.
Tepò, crocchia di
capelli formata da trecce arrotolate e fermate
sulla nuca da spilloni (fertecchéne),
come ancora usano portare le popolane. Cfr. fr.
toupet (mucchietto di capelli); in
Sicilia tupù; probabilmente esito franco.
II francese toupet viene da antica radice
germanica top dal significato 'cima,
vetta', ancor oggi mantenuto nelle lingue
anglosassoni. Da questa accezione la parola è
passata ad indicare qualunque ciuffo di capelli.
Nel 1700, quando nei salotti 'bene' si parlava
più in francese che in italiano, si chiamava
tuppé o toppé una pettinatura tutta tirata
indietro a guisa di parrucchino e il parrucchino
stesso; ora invece toupet non è che
abbreviazione del faux toupet, finto
ciuffo.
Terabusciò, cavaturacciolo; fr.
tire-bouchon. Probabilmente esito franco.
Ternescì, capogiro. Da radice fenicia; v.
a-ttòrze.
Tiche-tiche, solletico; v. 'ddïóse.
Tófe, zolla (lat,
teba), è voce sabina. Le voci sabine nelle
nostre contrade dovrebbero essere
d'importazione, pallidi fiori portati da chissà
quale tempesta nel giardino della nostra parlata
popolare.
Tògne, azione
sollecitatoria esercitata dal pesce sulla canna
da pesca dopo aver abboccato.
Traccagnùtte: tozzo, bassotto e piuttosto
robusto.
Trambullà, grosso recipiente di latta.
Trapìcce: si chiamano
così quei bassi cavalletti di legno sui quali
venivano poggiate delle tavole che reggevano il
materasso fatto di sfùje, cioè di quelle
foglie costituenti il cartoccio del granoturco,
opportunamente seccate: misero letto del misero
popolano.
Trapìcce discende dal
greco trapeza (pr. tràpeza),
tavola.
Trasòle, tesoro, fr.
trésor; probabilmente esito franco.
Trécà, durare; così
ad Acquaviva, Monteprandone e Monsampolo;
tricà a Cossignano. Ci viene in mente il
lat. trahere, it. durare, pronunciato
trachere (cfr. nihil / nikil), da
cui, previe alternanze a-e ed e/a,
trecà; ma è più probabile una derivazione da
radice greca.
Trengà, tendere.
Trettecà, oscillare,
muovere. A Roma trìttica, muove.
Trìmmele, torpedine,
pesce con corpo a forma romboidale, appiattito.
Tròcche, truogolo,
evidentemente da pronuncia latina locale
medievale tròcolo ridottosi a tròcle.
Trófe, fiasca di
terra cotta o di latta, come si usò in un
recente passato; è voce umbro-sabina.
Truzze, tozzo di
pane, ma inteso come resto di pasto precedente;
truozze a Monsampolo.
Tuppe, piccoli groppi
di lana.
* * * * *
Ucchialò: è così
chiamato un pesce, l'occhialone (pagellus
centrodontus); è opportuno comunque
precisare che ancor oggi vengono chiamati
arfacétte gli ucchialenétte
disseccati al sole, che i vecchi usano (o
meglio, usavano) portarsi in osteria per la
"bevuta".
Ucchiàte, Ucchiatélle,
occhiata, occhiarella (sorta di pesce,
oblada melanura).
Uléje, voglia. Non
viene da corruzione della parola italiana, ma
corrisponde a "golia", di identico significato.
Cfr. in proposito i versi ché ben conosco
ormai - di che se' golïosa nella poesia
anonima della Scuola Siciliana, sul formarsi
della lingua italiana, "Part'io mi cavalcava -
audivi una donzella...`, in cui viene descritto
il contrasto tra una ragazza smaniosa di
sposarsi e la madre che la rimproverava,
giudicandola una 'svergognata'. Golïosa
da golïare, provenzale golejar,
bramare, cui la nostra parola dialettale più si
accosta.
Uuéle, fiacco, fr.
veule; probabilmente esito franco; e da
uuéle, uletónie (la) - come cetùnie,
'acidità di stomaco', da céte, 'aceto- il
gusto di restare a letto, la voglia di lasciarsi
andare. La u. (femm.) e non l'u. (masch.),
perché evidentemente una volta la parola
iniziava con semivocale v.
GERGO
(v-z)
Vasce, assi che
percorrono longitudinalmente ed esternamente la
parte inferiore dello scafo, posti lateralmente
rispetto all'asse centrale che va da prua a
poppa e che consentono, tra l'altro, alla barca
di poggiare stabilmente sulle palànghe
(v.) quando è tirata in secco (cfr. lat.
basis, is, sostegno, zoccolo).
Vattezzìre, botte da orbi, all'impazzata
(forse da 'battere' e'giro'?).
Vaze (farsi la):
espressione usata quando, nel gioco delle
carte (briscola), si vince la presa con un
'carico' dello stesso seme della carta che ha
aperto il 'giro'
Veccellàte, sorta di
galletta. Impastato in forma di ciambella,
ricotto e biscottato perché si conservasse a
lungo, faceva parte della razione del pescatore
sambenedettese imbarcato sulle paranze o
sulle langètte. Nelle Eolie
vucciddatu.
Vècchie (la), granceola (maja squinado).
Vecciandò, veccendò,
calabrone, moscone; ad Acquaviva veccendò;
a Cossignano vecciandò; a Monsampolo
vucciandó, come pure ad Ascoli;
mucciandó a Force; nel fermano voccendó.
Vedetóre, mostriciattolo; per estensione,
'brutto a vedersi'.
Véje!, espressione
con senso di minaccia ed ammonimento, dal lat.
vae!, guai!, mediante epitesi (come
ddòje, trèje).
Vejé, bollire.
Vènghe, giunco; dal
lat. vinculum, contrattosi in vinclum
e con la c mutata in g per
sonorizzazione (cfr. lat. vincio,
avvincere, legare e vinceus, di giunco).
Vinghe ad Ascoli.
Vennerécule, rivenditrice al minuto di
ortaggi.
Verdenèlle,
succhiello; e così ad Acquaviva. Verdenella
ad Ascoli e Monsapolo; verzenìlle a
Castignano; vèrdunu a Montefiore.
Vergà o vergàre, il
capo, l'anziano di una famiglia colonica. Una
volta il capo di casa, il padrone, quale segno
di autorità aveva in mano una verga, simbolo di
potere fin dai tempi antichissimi.
Vergarìlle, rigagnolo.
Vernecchire,
pettegolo; vernecchiere a
Monsampolo; vernecchire a Cupra;
verdecchire a Montegallo.
Verróte, virre,
riferito a donna con significato di mascolina,
forte, selvaggia. Riteniamo debba mettersi in
relazione con il lat. vir, uomo,
dovendosi scartare 1'it. 'verro', parola
sconosciuta al popolo, nonché il lat. verres,
is, porco maschio.
Verzellé, sorta di uccello (serinus
hortulanus).
Vesbàne, busbana (gadus minutus).
Vèspe, ape. La voce è
diffusa in tutte le nostre contrade (Offida,
Cossignano, Montalto M., Castignano) talvolta
assumendo l'a finale; vèspere a
Cupramarittima e vèspara a Montefiore;
vespa si dice ad Ascoli e Force; altrove
nella provincia apa.
Vettócce, forse
piccola misura per liquidi. Si dice vettóccia
d'acque per dire un goccio di acqua.
Visciòle, vesciòle,
bollicina da scottatura. Vesciòle ad
Acquaviva; vesciaccule a Castorano.
Vòcca 'n cape, sorta
di pesce (trigla lucerna).
Vòtere, imprecazione
solenne, di cui ci ha dato una caratteristica
descrizione Bice Piacentini in tre sonetti
spumeggianti di verve. Votra a Monsampolo;
vòtera a Cupramarittima e Castignano.
Vóttele, gorgo,
vortice pericoloso che attira verso le
profondità marine.
Vóze, bolso; dal lat.
vulsus (inf. vellere), schiantato.
Vrescìlle, ventricolo
di pollo; ad Ascoli grescìlli; in Abruzzo
vrescìle e vruscìle.
Vrisciòtte, varietà
di fichi.
Vrónze (jí), così
sono chiamate la vaccinazione antivaiolosa e le
cicatrici che essa lascia. A Monsampolo,
vrunze.
Vùleche, rete che risulta un qualcosa di
mezzo fra quella della sciabica e la petaròle
(v.).
* * * * *
Zallò: 1. la noce più
grossa e più pesante che i bambini usavano,
lanciandola da lontano, per abbattere i
castelletti di noci, in un loro gioco
caratteristico; 2. il pallino nel gioco delle
bocce, altrimenti detto l'ecché.
Zanghètte: 1. sorta
di pesce (arnoglossus laterna); 2. vuol
dire anche sgambetto e nel dialetto la parola,
maschile in lingua, è femminile.
Zàrzele, sporcizia (per
estensione, 'cosa mal fatta', 'brutta').
Zaùtte, bracciante di
mare in genere; zaguotte a Monsampolo e
Castorano vale ‘ragazzino'; zagutte a
Montefiore, 'uomo rozzo'; zaguotte ad
Ascoli, 'ragazzino'; zagutte, 'ragazzotto',
a Montegallo; zauttu, 'giovanetto', a
Force.
Zazzà, gradire (nen
me zazze: non mi piace, non la gradisco).
Zellóse, pieno di
zecche; dalla voce dialettale zòlle (v.).
Zerlà, giocare (dei
bambini).
Ziàche: si dice dei
bambini: quasi vivace, ma una vivacità esagerata
e pericolosa; ziaghe ad Acquaviva.
Zòlle, zecche.
Zórle, gioco (dei
bambini). Lu jùche, da cui trapela
l'italiano 'gioco', è quello dei grandi. Nel
dialetto di Sezze, Comune dei monti Lepini,
zurla significa 'agita'.
* * * * *
... e tante altre che sarebbe
lungo ricordare.
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